RISPOSTA DEI SOCIALISTI RELIGIOSI ALLA DICHIARAZIONE DI GOVERNO DI HITLER (12/2/1933)

 

Signor Hitler, veramente lei non sa che la causa della nostra disgrazia è la guerra che hanno iniziato i nazionalisti e capitalisti del mondo, ma non i socialisti; la guerra che mise sottosopra tutta l’economia mondiale, che sottrasse i depositi di materia prima e di sblocco alla nostra economia, che costò più di un bilione di marchi d’oro ai popoli “civili”, e la razionalizzazione che ha inghiottito milioni di marchi d’ora con il suo tempo accelerato e ha messo a riposo milioni di operai, e la crisi economica mondiale che è una catastrofe del capitalismo e può essere superata solo col socialismo?

Naturalmente lei sa tutto ciò. Ciononostante Lei incolpa gli operai socialisti tedeschi che sono vittime del capitalismo, mentre non ha detto neppure una parola contro i veri nemici del popolo.

Compagni!

Avete notato cosa mancava nell’altezzoso discorso di Hitler? Hitler non ha proferito neppure una parola contro il capitalismo, solo contro il marxismo. Vi è un solo vero socialismo tedesco e questo è il marxismo. Tutto ciò che diversamente si definisce socialismo è una via di mezzo o inganno. Anche noi socialisti religiosi riconosciamo Marx come il teorico fondamentale dell’economia del socialismo tedesco.

In Cristo, invece, vediamo la guida delle nostre anime, il principe dello spirito e il portatore di pace al mondo.

(Der religioese Sozialist 7, 1933, p. 25)

Contro il concordato col terzo Reich

In breve sul socialismo religioso

Oltre le dichiarazioni di singoli socialisti religiosi, il movimento ha anche preso posizione collettivamente. Questo avveniva con i suoi programmi, manifesti, soprattutto in riferiemtno ad avvenimenti politici, e con le risoluzioni che vennero regolarmente approvate nei diversi congressi.

I congressi ebbero luogo:

  • 1919 raduno di Tambach
  • 1924 raduno di Meerburg
  • 1926 II congresso dei socialisti religiosi a Meerburg
  • 1928 IV congresso dei socialisti religiosi a Mannheim
  • V congresso dei socialisti religiosi a Stoccarda
  • 1931 conferenza religioso-sociale a Caub
  • 1932 conferenza religioso-sociale a Bad Boll

 

I congressi della federazione internazionale ebbero luogo:

  • 1910 a Besançon
  • 1924 a Barchem
  • 1928 a Le Locle
  • 1931 a Lievin
  • 1938 a Eptingen

Documentazione storica

 

APPELLO DELLA FEDERAZIONE DEI SOCIALISTI RELIGIOSI DI GERMANIA CONTRO UN CONCORDATO CON IL REICH

Le notizie e le voci sulla prevista conclusione di un concordato tra chiese cristiane e il Reich retto dal blocco dei possidenti borghesi si moltiplicano e non accennano a venir meno-. I socialisti religiosi hanno perciò tutti i motivi per dichiarare già da ora chiaramente che essi si impegnarono nella lotta contro la conclusione di un tale concordato.

I socialisti religiosi sono dell’opinione che le chiese debbono essere staccate dallo stato, che le chiese non possono assolutamente apparire come potenze che concludono concordati per assicurarsi vantaggi esterni e possibilità d’influsso.

Tutti i diritti delle chiese nei confronti dello stato basati su questi concordati e tutte le sicurezze della vita ecclesiastica ottenute in questa maniera non procureranno nuova vita e nuovo spirito alla mancanza di forza interna della chiesa.

La necessità delle chiese, e l’importanza delle forze religiose-morali non vengono messe in chiaro delle sicurezze giuridiche nei confronti dello stato, ma il fatto che le chiese proveranno a tutti la loro indispensabilità con il loro annunzio e le loro azioni. Le chiese di Gesù Cristo devono evitare anche la sola impressione di essere interessate alla potenza e all’influsso mondano. Deve essere scopo della chiesa, edificata sul vangelo dell’aiuto ministeriale, divenire una comunità di sofferenti e umiliati che combatte la lotta delle masse oppresse ed essere loro consolazione ed aiuto in tutte le necessità.

Quanto più insignificanti sono le chiese esternamente, tanto più esse sarebbero perseguitate ed oppresse dai potenti dell’attuale stato classista, tanto più esse avrebbero significato, tanto più starebbe sotto la croce di Cristo e tanto più si avvicinerebbe al loro compito di annunciare la parola e la volontà di Dio senza badare se piaccia o no agli attuali detentori del potere.

(Sonntagsblatts des arbeitenden Volkers, 1927, p. 39).

Inedito sul web: il socialismo religioso in Svizzera

Digitalizzazione interna

Tutti gli scritti che si aggiornano quotidinamente sono in lettura sul sito dei quaccheri.it  alla pagina La Fede dei socialisti religiosi mentre su ecumenici.it la pagina dedicata al massimo esponente Ragaz alla pagina https://ecumenici.wordpress.com/leonhard-ragaz/

citata anche da Wikipedia.

 

  1. Il movimento religioso sociale

 

  1. I socialisti religiosi svizzeri

Nel 1904 Herman Kutter, un parroco svizzero, raccolse i pensieri dispersi di Blumhardt nel suo libro  “Sie muessen” (essi devono), come in una lente focale. Con inaudita insistenza proclamò alla cristianità del suo tempo che era piaciuto a Dio mostrarsi nella socialdemocrazia atea e materialista, dato che essa compiva le opere che avrebbe dovuto compiere la cristianità. Così egli preparava il terreno per il movimento sociale religioso.

La conferenza che nel 1906 Ragaz tenne in Basilea, di fronte all’associazione dei predicatori, divenne il punto di partenza. Con la sua tesi: il Vangelo abbatte tutte le barriere e tende a rinnovare la vita, egli diede voce a una estesa volontà che creò la sua piattaforma in un movimento. Seguirono piccoli e grandi incontri di persone che la pensavano allo stesso modo e presto il movimento ebbe una larga base. Soprattutto le grandi riunioni erano molto frequentate. Vi partecipavano quasi tutti i circoli e per un certo periodo di tempo sembrò quasi che al movimento riuscisse di estendersi a tutta la Chiesa e gran parte del mondo operaio: Come organo venne fondato Neue Eege i cui redattori erano, oltre a Ragaz, Liechtenhan e Hartmann. Nei più diversi circoli ecclesiastici faceva sensazione ed operava da stimolo il fatto che esso sembrava superare i contrasti di parte esistenti, ecclesiastici e teologi. Si cercava di superare le parole d’ordine teologiche esistenti: Riformatori, Positivi, Conciliatori, con nuove parole d’ordine sociali. Si formarono dei gruppi in tutta la Svizzera. Numerosi parroci entrarono nel partito socialdemocratico e parteciparono in modo decisivo alla sua attività . Il Movimento tenne le sue conferenze a intervalli regolari. Si respinse una più rigida organizzazione poiché il movimento non voleva divenire né un partito politico, né partito ecclesiastico. Esso tendeva a un socialismo della “spontaneità”, verso le libere cooperative secondo l’esempio inglese, verso una società organizzata in libertà ed onesta che rende superfluo lo stato come istituzione esecutiva. Ed essi esigevano una grande comunità popolare, federale.

I socialisti religiosi agivano in parte all’interno, in parte in stretta relazione con il partito. A Zurigo ed altre località, soprattutto della Svizzera Orientale, si formarono comunità di socialisti religiosi –ecclesiastici. Si può avere un’idea dell’estensione del movimento dal fatto che alla terza conferenza religiosa-sociale dell’aprile 1909 parteciparono circa 200 teologi svizzeri, per lo più giovani.

Se Kutter aveva inizialmente esordito, per così dire, con squilli di tromba e aveva ricordato ai cristiani il diritto di Dio trascurato nei riguardi dei proletari, egli fu anche uno dei primi che si distanziò nuovamente dal movimento. Quanto più il movimento religioso sociale progrediva, tanto più egli se ne allontanava. Non volle mai comparire in pubblico. Voleva solo predicare e solo in Chiesa, a parte i suoi libri. Egli insisteva su questo punto: bisogna far agire solamente Dio e mettersi nell’attesa di Lui. E questo era il rimprovero contro gli altri, essi volevano agire da se stessi e, se possibile, anche con la politica. Così si rafforzò sempre più la divisione in un’ala attivista e un’ala quietista. Naturalmente ne risultava frenato lo slancio inizialmente così potente del movimento.

In occasione dello sciopero generale del 1912 a Zurigo, quando alcuni socialisti religiosi si opposero al bando militare e altre misure oppressive contro il mondo operaio e si impegnarono a favore degli operai, si giunse alla rottura. Kutter si distanziò pubblicamente dal modo di agire dei socialisti religiosi.

La prima guerra mondiale significò un grave disinganno per l’iniziale entusiasmo del movimento. Si estese, perciò, la coscienza di distanza tipica della futura teologia dialettica: il regno mondano e il regno di Dio stanno in rapporto di abissale opposizione l’uno all’altro.

Con il calo dell’elemento teologico, si compì una laicizzazione del movimento religioso-sociale. Rasgaz rinunciò al suo incarico per dedicarsi completamente a questo lavoro. Egli divenne la guida di Settlement , il “Gartenhof”. Questo, oltre che centro d’azione per il movimento sociale, divenne punto d’incontro del proletariato e una specie di scuola popolare. Il lavoro del movimento tendeva soprattutto al corporativismo. Inoltre faceva valere il suo influsso nel partito. Esso si oppose con tutti i mezzi al tentativo di legare il movimento operaio svizzero alla III Internazionale. Per poter combattere più efficacemente “la fede nella violenza” degli operai venne fondato accanto a Neue Wege la rivista Der Aufbau, specializzata in problemi socialisti.

Essa divenne anche il cnetro della lotta contro il militarismo nella Svizzera. Chiedeva servizio civile, disarmo e obiezione di coscienza. Quando nel 1935 il partito socialdemocratico assentì alla difesa militare del paese, Ragaz e alcuni suoi prominenti amici se ne staccarono.

Dopo la morte di Ragaz, nel 1948, si giunse ad una divisione sul modo di giudicare il comunismo e la politica sovietica. “La nuova unione religioso-sociale” (organo: Der Aufbau), è contrariamente alla “Unione religioso-sociale” (organo: Neue Wege), espressamente anticomunista.

Chiudiamo qui l’attività preliminare del Blog con Ragaz

BENAZZI amando particolarmente questo teologo gli ha dedicato anni di studio riepilogati nella pagina a lui dedicata sul blog http://www.ecumenici.it: lo vogliamo solo ricordare per l’appello del 1930 diffuso anche sulla pagina facebook ANPI Olgiate Olona o magari perché violava il coprifuoco a Zurigo e accendeva la luce di casa quando passavano gli aerei tedeschi carichi di bombe per l’Italia? O per l’amicizia con Buber e i profughi ebrei quando dicevano le autorità cantonali che “la barca è piena” o quando stracciò la tessera del PS quando votarono il riarmo elvetico….o le case popolari costruite a Zurigo.

Leonhard Ragaz (1868-1945), per un’etica della politica e un giornalismo profetico
(Markus Mattmüller) Leonhard Ragaz è nato a Tamins, nei Grigioni, il 28 luglio 1868. Figlio di una modesta famiglia di contadini, cresce in un villaggio di montagna in cui gran parte del suolo è di proprietà pubblica, dove molti compiti vengono svolti in comune, in cui annualmente viene assegnata ad ogni famiglia – anche a quella più povera – una parcella di terreno. Tutto ciò rafforza in Ragaz la convinzione delle possibilità inerenti a un socialismo istituzionalizzato, al sistema cooperativistico, a una democrazia comunitaria viva e al federalismo. 

Teologia e lotta sociale 
Spinto a studiare teologia a motivo della facilità con cui ciò permette di ottenere una borsa di studio, dopo alcuni semestri trascorsi a Basilea, Jena e Berlino, a 22 anni diventa pastore e assume la cura di tre parrocchie di montagna. Successivamente è pastore a Coira, e nel 1903 viene chiamato alla cattedrale di Basilea. Fino a quel momento non si distingue in nulla dagli altri teologi liberali del suo tempo, la cui carriera è accompagnata da successo e popolarità. 
Nella città industriale di Basilea però, la lotta sociale, che sta raggiungendo il suo culmine, lo costringe a prendere posizione. Nella quaresima del 1903, scoppia un conflitto tra impresari edili e muratori e manovali. Questi ultimi rivendicano una riduzione dell’orario lavorativo e un aumento dello stipendio. Uno sciopero di grandi dimensioni viene sciolto dall’intervento delle truppe cantonali e gli operai devono arrendersi. La domenica dopo Pasqua, Ragaz sale sul pulpito della cattedrale di Basilea e predica su Matteo 22, 34-35, il doppio comandamento (“Ama il Signore, tuo Dio, con tutto il tuo cuore… Ama il tuo prossimo…”). In quella occasione afferma che la questione operaia è il problema più urgente del suo tempo: “Il cristiano deve sempre schierarsi dalla parte del debole, dalla parte di coloro che nella lotta sociale tendono verso l’alto. Il cristiano deve sapere che siamo fratelli, non deve solo guardare a se stesso e pretendere che Dio badi a tutti gli altri, ma riconoscere che come figli di Dio siamo responsabili gli uni degli altri”. 

Da Basilea a Zurigo 
Per la prima volta Ragaz esprime la convinzione che nel movimento operaio si manifesti una forma di cristianesimo inconsapevole, istintiva. Nello stesso anno, parla per la prima volta del contrasto tra “la religione statica, immobile, quieta e la religione che si muove dinamicamente in avanti. Il primo tipo”, dice, “vede nella religione un luogo di riposo dove coltivare una pietà individualistica e fa del cristianesimo un potere conservatore. I rappresentanti della seconda forma sottolineano invece non la fede in Cristo, bensì la sequela di Cristo. Non difendono la chiesa intesa come istituzione, ma rivendicano il regno di Dio”. Chiamato a Zurigo, nel 1908, dalla Facoltà di teologia dell’Università, come professore di teologia sistematica e pratica, Ragaz tiene una serie di corsi sulla filosofia della religione, sull’etica, sul cristianesimo e la questione sociale. 

Lo scoppio della guerra 
L’inizio del primo conflitto mondiale nel 1914 è considerato da Ragaz come il giudizio sulla società capitalista e militaristica, ma anche sulla chiesa imborghesita e troppo leale verso lo stato. Da quel momento in poi, l’ex comandante dei cadetti e cappellano militare diventa uno dei leader principali del movimento pacifista svizzero. 
Gli anni 1914-1918 rappresentano un momento importante nell’opera politica e teologica di Ragaz. Nella discussione sulle origini della guerra, condotta anche da molti profughi socialisti, il movimento dei socialisti religiosi ha richiesto un ancoramento intellettuale più profondo del socialismo. 
Gli anni della guerra hanno impresso al pensiero teologico di Leonhard Ragaz l’impronta definitiva (la stessa impressa anche al pensiero di Karl Barth): il regno di Dio non è interiore o trascendente, ma vuole trasformare la nostra società e liberare i poveri. 

La svolta 
La sua critica alla chiesa, alla teologia e a un cristianesimo borghese, spingono Ragaz a riconoscere la contraddizione esistente tra le sue convinzioni e il suo stato privilegiato di teologo accademico. Nel 1921, all’età di 53 anni, senza il diritto ad una pensione, dichiara le sue dimissioni dalla cattedra zurighese e si trasferisce alla Gartenhofstrasse, nel quartiere operaio di Zurigo-Aussersihl, dove fonda l’accademia popolare Educazione e formazione. Da allora in poi, si guadagna da vivere con le modeste entrate provenienti dal lavoro giornalistico. 
Dopo questa grande svolta, Ragaz concentra le sue attività su tre argomenti principali, tutti di carattere “profano”: la formazione operaia, il socialismo e la pace mondiale. 
Nel suo centro di formazione, Ragaz dibatte questioni sociali, giuridiche e politiche. In discussioni di gruppo vengono trattati libri e personaggi biblici, attualizzati nel contesto storico e contemporaneo. Dopo il 1921 non predica più in nessuna chiesa. Le sue considerazioni e disquisizioni nella saletta della Gartenhofstrasse e i suoi contributi pubblicati sulla rivista Neue Wege costituiscono, per molti anni, le sue uniche testimonianze teologiche. 
Ragaz legge i testi biblici nel contesto degli avvenimenti contemporanei: soprattutto durante gli anni della seconda guerra mondiale questo modo di leggere la Bibbia trasmette a molti speranza e consolazione, ma mette anche in guardia di fronte ai pericoli politici di quell’epoca buia. 

Cristianesimo, ebraismo, socialismo 
In molti suoi articoli Ragaz prende posizione sul delicato argomento della “questione giudaica”. Ribadendo che la radice sia del giudaismo che dell’ebraismo è unica, rifiuta qualsiasi attività missionaria verso gli ebrei. Con lungimiranza condanna la notte dei cristalli, nel 1938, come atto barbarico di saccheggio del patrimonio degli ebrei. Riconoscendo già presto e condannando inequivocabilmente la “soluzione finale” nazista, Ragaz accoglie nel suo centro numerosi profughi ebrei e instaura con loro un rapporto di dialogo e amicizia. 
Aderente all’ala sinistra del partito socialista, quella contraria alla guerra, Ragaz osserva accuratamente gli sviluppi in Russia e riconosce i pericoli totalitari: socialismo e violenza, nell’analisi ragaziana, si escludono. Nel 1919 con un gruppo di amici pubblica il programma socialista, nel quale prende posizione contro un socialismo totalitario, in favore del cooperativismo e della formazione. Nel 1935 il partito socialista, la cui esistenza, nella Germania nazista, è in pericolo, adotta una posizione favorevole al riarmo; Ragaz lascia allora il partito con le parole: “Rimango socialista!“ 

Pacifismo e liberazione 
Nel periodo tra le due guerre, Leonhard Ragaz è il principale esponente del movimento pacifista svizzero. Dopo avere giurato a se stesso, nell’agosto del 1914, di volersi impegnare in permanenza per la pace, mantiene questa promessa fino alla fine. Il suo pacifismo è però tutt’altro che apolitico: lotta per istituzioni ancorate nel diritto internazionale e per garantire la pace a livello mondiale. Nel caso estremo, avrebbe anche acconsentito ad una polizia per la pace della Società delle Nazioni. 
Sin dall’inizio del secondo conflitto mondiale, in Svizzera vige la censura di stampa. I commenti di Ragaz sulla situazione attuale, pubblicati nella sua rivista Neue Wege, non passano inosservati: le minacce da parte ufficiale culminano presto nella precensura. Ragaz, irritato, interrompe la pubblicazione della rivista e spedisce d’ora in poi le sue riflessioni, meditazioni bibliche e commenti politici in busta chiusa direttamente ai suoi lettori. Negli anni seguenti Ragaz scrive il suo commento a tutti i libri della Bibbia. Nel contempo (1944 e 1945) redige i due volumi sulle parabole e il sermone sul monte. Non esiste, tra le opere teologiche del Novecento, un’altra presentazione del messaggio di tutta la Bibbia condotta seguendo, quale unico filo conduttore, “il messaggio del regno di Dio e della sua giustizia per la terra.“ 
È assolutamente da rileggere, quest’opera monumentale (Die Bibel. Eine Deutung, Edition Exodus, Brig/Fribourg, 1990, ristampa in 4 volumi, n.d.r.), per conoscere e capire le posizioni teologiche di questa dottrina politica e sociale fondata sulla Bibbia. I rappresentanti della teologia della liberazione, nell’America Latina, hanno riconosciuto in Ragaz un loro precursore. 
Ragaz vede ancora la fine della guerra, la vittoria delle democrazie e la fondazione delle Nazioni Unite. Le commenta nella sua rivista ormai liberata dalla censura. Il 6 dicembre 1945 conclude la 39. annata della rivista Neue Wege. La sera del giorno dopo, all’età di 77 anni, soccombe a un arresto cardiaco (trad. it. Paolo Tognina).

Anna

Anne Frank (1929-1945), la memoria dell’incubo
(Paolo Tognina) Nel 1933 Otto Frank, il padre di Anne, decise di lasciare Francoforte, dove viveva con le sue due bambine e la moglie, per andare a stabilirsi ad Amsterdam. Aveva capito che l’ascesa di Hitler avrebbe avuto conseguenze nefaste per gli ebrei.Fuga in Olanda
Con i suoi genitori e la sorella Margot, di tre anni più anziana di lei, Anne Frank, che era nata il 12 giugno 1929, andò a vivere in Merwedeplein 37, ad Amsterdam.
L’infanzia di Anne trascorse abbastanza tranquilla, finché l’Olanda non fu invasa dalle truppe tedesche, nel maggio del 1940. Nuvole nere si addensarono nel cielo di Anne quando gli occupanti tedeschi cominciarono a limitare sempre di più le libertà degli ebrei. Gli studenti ebrei furono espulsi dalle scuole pubbliche e costretti a frequentare istituti per soli ebrei. Per qualche tempo ancora – e grazie agli sforzi compiuti da Otto ed Edith Frank per conservare una parvenza di normalità – Anne continuò tuttavia a vivere una vita relativamente tranquilla.
Nel luglio del 1942 Margot Frank ricevette dalle autorità d’occupazione una cartolina che la invitava a presentarsi per essere arruolata nel servizio da svolgere “a est”: era il segnale dell’imminente deportazione. Otto Frank era pronto.

Vita nel rifugio
Nel retro della piccola fabbrica di gelificanti di cui era stato proprietario (aveva ceduto la “Opekta” ad alcuni fidi collaboratori, prima che fosse confiscata dai tedeschi) aveva ricavato un alloggio segreto per sé e per la sua famiglia. E alcune persone, tra cui Miep e Jan Gies, erano pronti ad aiutarli. I Frank entrarono nel nascondiglio sulla Prinsengracht, al numero 263, ai primi di luglio del 1942. E ne uscirono solo il 4 agosto 1944, quando furono tratti in arresto – per colpa di una soffiata – dalla polizia tedesca.
Durante i due anni di permanenza nell’alloggio segreto, Anne tenne un diario. Dopo la guerra quelle pagine furono recuperate dal padre, Otto, e pubblicate e tradotte in molte lingue in tutto il mondo. Si tratta di uno dei documenti più significativi dell’immane tragedia dello sterminio degli ebrei europei.

Da Westerbork ad Auschwitz
Il giorno dopo l’arresto, i Frank furono portati al campo di concentramento olandese di Westerbork. Il 3 settembre 1944 Anne, Margot, Edith e Otto Frank salirono sull’ultimo treno diretto ad Auschwitz. Su quel treno c’erano 498 uomini, 442 donne e 79 bambini. In totale 1019 persone. Quando partirono, gli alleati avevano già raggiunto Bruxelles e si trovavano a poco più di 200 chilometri di distanza da Westerbork.
Il treno raggiunse Auschwitz nella notte tra il 5 e il 6 settembre. All’arrivo fu effettuata la selezione. Uomini e donne furono separati. 549 persone scese da quel treno – e tra loro tutti i ragazzi fino ai 15 anni – furono subito assassinate nelle camere a gas di Auschwitz-Birkenau. Anne sfuggì a quel primo tentativo di eliminazione.
Quando quell’ultimo trasporto proveniente dall’Olanda raggiunse il campo, il “Frauenlager” di Auschwitz conteneva quasi 40’000 donne. Anne, Margot e la madre finirono nel “Frauenblock 29”. Le tre donne rimasero insieme fino alla fine di ottobre. Ad Auschwitz, come disse più tardi un’ebrea olandese che vide Edith Frank e le sue figlie in quel lager, non c’era più traccia dei dissidi tra Anne e sua madre menzionati nel diario scritto nell’alloggio segreto della Prinsengracht: quelle tre donne lottavano, insieme, unite, per sopravvivere.

L’ultimo viaggio
Il 28 ottobre 1944, quando i russi erano ormai a poco più di cento chilometri da Auschwitz, Anne e Margot furono trasportate nel campo di Bergen-Belsen (Edith Frank rimase ad Auschwitz, dove morì il 6 gennaio 1945).
Negli ultimi mesi di guerra Bergen-Belsen si trasformò in un inferno. I tedeschi stavano evacuando i campi a oriente e molti convogli, tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre, rovesciarono a Bergen-Belsen un numero inverosimile di prigionieri. Il cibo scarseggiava e per giunta nel tardo autunno il campo fu investito da una forte tempesta che ne danneggiò parecchie strutture. Le condizioni bestiali in cui erano ridotti i prigionieri provocarono la morte di un alto numero di loro, negli ultimi mesi prima della fine del conflitto e nei mesi immediatamente successivi alla fine della guerra. In particolare epidemie di tifo falcidiarono la popolazione di Bergen-Belsen. Nel marzo del 1945, poche settimane prima che il campo fosse raggiunto dalle truppe inglesi, Margot e Anne Frank morirono, a pochi giorni di distanza l’una dall’altra.
Delle 1019 persone salite sul treno partito da Westerbork il 3 settembre 1944, sopravvissero 82 donne e 45 uomini, tra cui Otto Frank.

Anne Frank a Sils-Maria
Nell’estate del 1935 Anne Frank trascorse qualche tempo a Sils-Maria, nell’alta Engadina, ospite di Olga Spitzer, cugina di secondo grado di suo padre, Otto Frank. Anne abitava nella splendida Villa Spitzer (oggi Villa Laret), immersa nel bosco. Ci ritornò anche l’anno dopo, con la mamma e con la sorella Margot. Nelle pagine del Diario riaffiora il ricordo di quelle vacanze, di quella “isola di pace” nell’alta Engadina.
A Sils-Maria, a poca distanza dalla villa dove Anne trascorse vacanze spensierate, sorge oggi un monumento in suo ricordo. Una scultura che vuole esprimere il principio della tolleranza, della comprensione tra le religioni, della convivenza pacifica, senza l’uso della violenza.

Riprendiamo il discorso del Prof. Ampollini che si chiudeva con …

Primo Levi (1919-1987), testimone dello sterminio
(Ursula Braunschweig-Lütolf) Nato nel 1919, Primo Levi trascorse tutta la sua vita – tranne qualche involontaria eccezione – fino alla sua morte, avvenuta l’11 aprile 1987, nella casa paterna di Corso Re Umberto a Torino. Malgrado fosse cresciuto in un ambiente ebraico e conoscesse la tradizione ebraica – fu “bar mitzwah” anche lui all’età di 13 anni – come tanti coetanei non dava grande importanza al suo essere ebreo. Non si sentiva diverso dagli altri. Questo cambiò all’improvviso.Le leggi razziali
Proprio nel momento in cui Levi cominciò lo studio di chimica all’ università furono introdotte le leggi razziali in Italia. Tra l’altro queste leggi proibivano agli ebrei di seguire studi universitari e di insegnare all’università. Sia per disprezzo, sia per imbarazzo o paura tanti professori rifiutarono di accettare Levi all’università. Fece eccezione un’assistente di laboratorio disposto a trascurare le leggi e ad accogliere Levi come collega di laboratorio. Nel mese di luglio 1941 Levi passò gli esami finali “summa cum laude”. Nel documento di diploma fu annotato che egli era di origine ebraica.
In quegli anni era difficile trovare un posto di lavoro, a maggior ragione per un ebreo. L’offerta che gli fu fatta alla fine dell’anno era del tutto inattesa, tanto più benvenuta. Si trattava di un lavoro da chimico in una miniera di nichel. Dato che il contenuto di nichel del materiale estratto era troppo scarso, il direttore della miniera e Levi decisero ben presto di abbandonare il progetto. Levi trovò subito dopo lavoro in una ditta milanese che conduceva ricerche per trovare una medicina orale contro il diabete. Fu a Milano, allora considerata capitale morale dell’Italia fascista, che Levi conobbe l’antifascismo militante e dove fece amicizia con protagonisti dell’antifascismo italiano come Gramsci, Gobetti e Salvemini, protagonisti di una storia dell’Italia diversa da quella insegnata da decenni nelle scuole del regime.

Partigiano in Piemonte
L’8 settembre 1943, quando “il serpente grigio verde delle divisioni naziste“ strisciava nelle strade di Milano e Torino, il risveglio fu brusco. Non si poteva più ignorare che ormai l’Italia era diventata un paese occupato. Sconvolto da questa realtà, insieme ad altri compagni milanesi Levi si recò nelle montagne piemontesi per unirsi ai partigiani. In Sistema periodico Levi scrive che loro erano i partigiani meno armati e probabilmente quelli più ingenui. Qualcuno li tradì e il 13 dicembre furono trovati nel loro nascondiglio e catturati dalla Milizia fascista. Negli interrogatori Levi si dichiarò ‘cittadino italiano, di razza ebraica’ credendo che fosse meno pericoloso dichiararsi ebreo che partigiano. Fu un errore tragico, in cui incorsero Levi e tanti altri ebrei che ancora non intuivano le mostruosità che incombevano.

Prigionia e deportazione
Dopo l’arresto in Piemonte Levi fu trasportato al campo d’ internamento fascista a Carpi/Fossoli, nei pressi di Modena. I dirigenti fascisti del campo assicurarono ai detenuti che sarebbero rimasti lì fino alla fine della guerra. Alla fine di gennaio del 1944 a Fossoli si trovavano 150 ebrei, alcune settimane più tardi più di 600, per lo più intere famiglie catturate dai fascisti o dai nazisti.
”L’arrivo di un piccolo reparto di SS tedesche avrebbe dovuto far dubitare anche gli ottimisti; si riuscì tuttavia a interpretare variamente questa novità, senza trarne la più ovvia delle conseguenze, in modo che, nonostante tutto, l’annuncio della deportazione trovò gli animi impreparati”. Il 20 febbraio i tedeschi avevano ispezionato il campo ordinando di migliorare diversi aspetti della sua organizzazione.

Verso i campi di sterminio
“Ma il mattino del 21 si seppe che l’indomani gli ebrei sarebbero partiti. Tutti, nessuna eccezione. Anche i bambini, anche i vecchi, anche i malati. Per dove, non si sapeva. Prepararsi per quindici giorni di viaggio. Per ognuno che fosse mancato all’appello, dieci sarebbero stati fucilati”.
Dopo una notte “che fu una notte tale, che si conobbe che occhi umani non avrebbero dovuto assistervi e sopravvivere. Tutti sentirono questo: nessuno dei guardiani, né italiani né tedeschi ebbe animo di venire a vedere che cosa fanno gli uomini quando sanno di dover morire”.
Il giorno dopo, 650 “pezzi“ (“Stück”, come dicevano i tedeschi), uomini, donne, vecchi, giovani, bambini furono stipati a colpi di bastone nei dodici vagoni merci. Era Auschwitz la destinazione del viaggio, con le soste snervanti, gli sportelli chiusi, la sete, la fame, il freddo, Auschwitz “un nome privo di significato, allora e per noi; ma doveva pur corrispondere a un luogo di questa terra” .

Una “necessità storica”
Arrivati ad Auschwitz in una scelta rapida e sommaria furono divisi in due gruppi, quelli adatti al lavoro e utili per il Reich e quegli altri, vecchi, malati, donne, bambini che sarebbero morti pochi giorni dopo. “Così morì Emilia, che aveva tre anni; poiché ai tedeschi appariva palese la necessità storica di mettere a morte i bambini degli ebrei”.
A partire dal 1942 ad Auschwitz e nei Lager dipendenti da esso non ci si limitava più a cucire il numero di matricola dei prigionieri sui loro vestiti, ma venne tatuato sull’avambraccio sinistro. Levi, che fu segnato col numero 174 517, scrive: “L’operazione era poco dolorosa e non durava più di un minuto, ma era traumatica. Il suo significato simbolico era chiaro a tutti: questo è un segno indelebile, di qui non uscirete più; questo è il marchio che si imprime agli schiavi ed al bestiame destinato al macello, e tali voi siete diventati. Non avete più nome: questo è il vostro nuovo nome”.

Primo Levi scrittore
Subito dopo il suo ritorno a Torino, il 19 ottobre 1944, Levi scrisse, nel giro di pochi mesi Se questo è un uomo, “un libro che…lascia dietro una traccia lunga e intricata”, pubblicato una prima volta nel 1947, in 2500 copie, ben accolto dalla critica ma venduto male. I 600 esemplari non venduti, immagazzinati a Firenze, vi annegarono nell’alluvione del 1966. Nel 1957 il libro fu accettato da Einaudi. Da allora in poi ha avuto il suo itinerario. È stato tradotto in diverse lingue, adattato per la radio e per il teatro, in Italia ed all’estero. Nel 1959 l’editore Fischer acquistò i diritti per la traduzione in tedesco.

Tradotto in tedesco
Allora “mi sentii invadere da un’emozione violenta e nuova, quella di aver vinto una battaglia…il libro lo avevo scritto sì in italiano per gli italiani…ma i suoi destinatari veri, quelli contro cui il libro si puntava come un’arma, erano loro, i tedeschi. Ora l’arma era carica”. Il libro è una testimonianza sull’inferno dei Lager, sui ricordi orrendi della deportazione, della lotta quotidiana per la sopravvivenza, una riflessione sul raffinato meccanismo per la distruzione fisica e psichica degli uomini. Lo scopo del libro, come scrive Levi nell’introduzione, non è quello di aggiungere un’altra testimonianza a quelle già esistenti, ma piuttosto di rendere cosciente il lettore e la lettrice che il virus della xenofobia e del razzismo può giacere in ogni individuo, in ogni popolo “come un’infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager”.

I sopravvissuti parlano
Passarono undici anni prima che Einaudi tornasse sui propri passi (il lettore responsabile aveva per tanto tempo rifiutato di accogliere il libro nel programma della casa editrice) e si decidesse a pubblicare, nei “Saggi”, Se questo è un uomo.
“Effettivamente il manoscritto non fu accettato per parecchi anni, e quello che mi ha sempre sorpreso è che chi lo aveva letto era una personalità della letteratura ebraica, vivente…Non so perché sia stato rifiutato: forse fu solo la colpa di un lettore disattento.“.
Il rifiuto di pubblicare la sua testimonianza di “segnato“ gli bruciava molto, a maggior ragione perché il riufiuto veniva da uno della sua gente. Ricordiamo il sogno spesso ripetuto: il sogno di tornare, raccontare e non essere creduto. Il rifiuto opposto al suo manoscritto era per Levi l’avverarsi del suo incubo.

Umano o disumanizzato?
Se questo è un uomo fu tra le prime testimonianze scritte in Italia ed è, a livello europeo, tra quelle più importanti, forse la più alta nella letteratura europea. Levi è riuscito con mirabile sobrietà di scrittura ad esprimere l’orrore del lager, senza condannare e giudicare.
“È vero che mi sono astenuto dal formulare giudizi in Se questo è un uomo. L’ho fatto deliberatamente, perché mi sembrava inopportuno, anzi opportuno, da parte del testimone, che sono io, sostituirsi al giudice; quindi ho sospeso ogni giudizio esplicito, mentre sono presenti chiaramente i giudizi impliciti.“ Essere superstiti e testimoni non è facile.

Testimone o giudice?
Levi scrive a proposito 40 anni più tardi ne I sommersi e i salvati: “…non siamo noi, i superstiti, i testimoni veri. È questa una nozione scomoda, di cui ho preso coscienza a poco a poco, leggendo le memorie altrui, e rileggendo le mie a distanza di anni. Noi sopravvissuti siamo una minoranza anomala oltre che esigua: siamo quelli che, per loro prevaricazione o abilità o fortuna, non hanno toccato il fondo. Chi lo ha fatto, chi ha visto la Gorgone, non è tornato per raccontare, o è tornato muto; ma sono loro i ‘mussulmani’, i sommersi, i testimoni integrali, coloro la cui deposizione avrebbe avuto significato generale. Loro sono la regola, noi l’eccezione.“
Il privilegio di Levi fu quello di essere stato scelto per il lavoro nel laboratorio chimico. In questo modo non fu costretto a lavorare nel corso del secondo, tanto temuto inverno, quando le sue forze fisiche e psichiche erano pericolosamente ridotte.
“Lavorare è spingere vagoni, portare travi, spaccare pietre, spalare terra, stringere con le mani nude il ribrezzo del ferro gelato. Io invece sto seduto tutto il giorno.“ E soffrire per il freddo: “In laboratorio la temperatura è meravigliosa: il termometro segna 24 gradi. Noi pensiamo che ci possono anche mettere a lavare la vetreria, o a scopare il pavimento, o a trasportare le bombole di idrogeno, qualunque cosa pur di restare qui dentro, e il problema dell’inverno per noi sarà risolto.“
Nel laboratorio, Levi trovava carta e matita e prendeva di nascosto degli appunti che più tardi gli sarebbero serviti. Vi poteva rubare benzina, alcool, sapone ed altro materiale che si lasciava vendere o scambiare per una scodella di brodo o un pezzo di pane.

Verso casa
La tregua, pubblicato nel 1958 insieme a Se questo è un uomo, presso Einaudi, ebbe un grande successo e ricevette il premio Strega.
Il libro è stato scritto in duecento ore, un capitolo al mese, la sera, dopo il lavoro in azienda. Il 3 settembre 1963 il libro vinse il primo premio Campiello nella cui giuria figuravano, fra altri, Tecchi, Comisso e Prisco. Dopo questa ‘rinascita’ Levi si sentì per così dire promosso al mestiere di scrittore.
La tregua è il resoconto della liberazione e del lungo viaggio di ritorno attraverso la Polonia, la Russia, la Romania, l’Ungheria, la Cecoslovacchia, l’Austria e la Germania. Nel lager di Buna-Monowitz erano stati abbandonati in ottocento, tutti malati. Il 27 gennaio 1945, mentre Levi stava portando fuori dalla baracca dell’ Infektionsabteilung il cadavere di un compagno, chimico anche lui, la prima pattuglia russa, quattro giovani soldati a cavallo, giunse al campo.
“Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altri, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa. Così per noi anche l’ora della libertà suonò grave e chiusa e ci riempì gli animi, ad un tempo, di gioia e di un doloroso senso di pudore, per cui avremmo voluto lavare le nostre coscienze e le nostre memorie della bruttura che vi giaceva…“.
Alla fine del libro Levi, ormai tornato a casa, a tavola con la famiglia, scrive del brutto sogno che lo tormentava spesso: che non era vero ciò che lo circondava, che era di nuovo nel lager, che solo la realtà del lager era vera, e sentì di nuovo il comando per alzarsi, „wstawac“.

Il sistema periodico
È la quarta grande opera nella cronologia delle pubblicazioni. Si apre con una frase in yiddisch: “Ibergekumene zoress is gut zu derzajln (si possono raccontare facilmente soffferenze sopravvissute). Ognuno dei ventun capitoli porta come titolo il nome di un elemento chimico. Il chimico Levi vi associa le caratteristiche degli elementi alle caratteristiche e peculiarità delle persone e dei fatti raccontati. Si tratta di una specie di autobiografia raccontata attraverso descrizioni esemplari. Così Levi permette a chi legge di di avvicinarsi agli incontri importanti e alle situazioni decisive della sua vita, di dare uno sguardo al contesto storico e sociale che lo ha circondato e formato: la piccola comunità israelitica del Piemonte e i suoi protagonisti – il popol d’Israel – l’introduzione delle leggi razziali in Italia e le conseguenze per il giovane studente di origine ebraica, le varie esperienze come chimico.
Nel capitolo „Ferro“ incontriamo l’amico Sandro, studente di chimica anche lui, un ragazzo silenzioso cui piacevano le più estenuanti gite in montagna d’inverno e d’estate, spesso accompagnato da Primo, che ne porta uno squisito ricordo. Anzi, gli è riconoscente di averlo forzato ad eseguire tali esercizi fisici proprio al limite del sopportabile, come se avesse presentito ciò che sarebbe avvenuto qualche tempo dopo, un futuro duro come il ferro.
Dopo il ritorno da Auschwitz, Levi aveva presto ripreso il lavoro che gli piaceva tanto. Tutto il tempo libero, però, lo utilizzava per scrivere, per testimoniare, perché si sentiva obbligato a farlo e ci esorta tutti a farlo, già da quando scrisse la poesia Shemà, nel 1946, indirizzata a “Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case, voi che trovate tornando la sera il cibo caldo e visi amici. Meditate se questo è un uomo, che lavora nel fango, che non conosce pace…Meditate che questo è stato: Vi comando queste parole…Ripetetele ai vostri figli. O vi si sfaccia la casa…I vostri nati si torcano il viso da voi.“

Paure, incubi e giudizi
Quarant’anni dopo la pubblicazione di Se questo è un uomo, nell’introduzione a I sommersi e i salvati leggiamo ancora del vecchio incubo di Levi e di altri testimoni – incubo che ricorreva spesso nelle notti di prigionia – di non essere creduti e nemmeno ascoltati.
Citando un brano da Gli assassini sono fra noi, di Simon Wiesenthal, Levi ricorda ciò che i militi SS dicevano ai prigionieri: “In qualunque modo questa guerra finisca, la guerra contro di voi l’abbiamo vinta noi; nessuno di voi rimarrà per portare testimonianza, ma se anche qualcuno scampasse, il mondo non gli crederà. Forse ci saranno sospetti, discussioni, ricerche di storici, ma non ci saranno certezze, perché noi distruggeremo le prove insieme con voi. E quando anche qualche prova dovesse rimanere, e qualcuno di voi sopravvivere, la gente dirà che i fatti che voi raccontate sono troppo mostruosi per essere creduti: dirà che sono esagerazioni della propaganda alleata, e crederà a noi, che negheremo tutto, e non a voi. La storia del Lager siamo noi a dettarla.”

Qual’è il senso della vita?
In una lettera al suo traduttore tedesco, nel 1960, Primo Levi aveva scritto che non credeva che la vita dell’uomo avesse uno scopo definito ma che, pensando alla propria vita, ne riconosceva uno preciso e cosciente, quello di portare testimonianza e di far udire la sua voce al popolo tedesco, di “rispondere” al kapò che si era pulito la mano sulla sua spalla. Con la sua ultima opera, che non è tanto documento di storia quanto meditazione e lucido discorso sul destino umano, Levi intende contribuire a chiarire alcuni fenomeni del lager. Ma non solo questo. Il libro “vorrebbe rispondere alla domanda più urgente, alla domanda che angoscia tutti coloro che hanno avuto occasione di leggere i nostri racconti: quanto del mondo concentrazionario è morto e non ritornerà più, come la schiavitù ed il codice dei duelli? quanto è tornato o sta tornando? che cosa può fare ognuno di noi, perché in questo mondo gravido di minacce, almeno questa minaccia venga vanificata?”

Il labirinto del lager
I sommersi e i salvati è un libro che insegue più obiettivi. Analizza fino in fondo la “zona grigia” della collaborazione, quella terra di nessuno che separa i prigionieri dagli aguzzini, ma che nello stesso tempo li unisce. È un tema tra i più difficili che Levi, nel suo ruolo di testimone per eccellenza, è legittimato ad affrontare. La sua volontà di capire porta alla luce i lati scuri, la complessità, il labirinto del lager.
Una parte importante del libro è dedicata al bilancio dell’impatto della realtà del lager sulla coscienza contemporanea. Secondo Levi, a quarant’anni dalla guerra, il ricordo era sbiadito. La coscienza si era affievolita tanto che lo sterminio rischiava di apparire solo la variante più spinta di una distruttività generale, cioè che tra lager e altre forme di oppressione la differenza era solo questione di qualità.
Questo libro, come molti altri, è anche una risposta al revisionismo che, sulla scia di storici come Nolte e Hillgruber, ebbe un’appendice italiana a partire dall’estate 1986. Lo “Historikerstreit” all’ italiana fu condotto da storici che non negavano l’esistenza di Auschwitz, ma che postulavano una ridefinizione degli avvenimenti che consentiva di affermare la non-eccezionalità, la non-unicità di fatti come lo sterminio degli ebrei o l’esistenza stessa di Auschwitz. In questa sua ultima opera, Levi accentua le caratteristiche abnormi e specifiche dei lager nazisti, non occasionali ma diligentemente premeditate, singolari e uniche.
“I lager nazisti sono stati l’apice, il coronamento del fascismo in Europa, la sua manifestazione più mostruosa.”

Lager nazisti e gulag staliniani
Affrontando il paragone con i lager russi, Levi scrive: “i lager tedeschi costituiscono qualcosa di unico nella pur sanguinosa storia dell’umanità: all’antico scopo di eliminare o di terrificare gli avversari politici, affiancavano uno scopo moderno e mostruoso, quello di cancellare dal mondo interi popoli e culture”.
Questo motivo ritorna nell’intervista a Camon , pubblicata postuma, e nell’ultimo articolo di Levi sul quotidiano la “Stampa” nel gennaio 1987 dove fra l’altro scrisse: “Che il Gulag fu prima di Auschwitz è vero; ma non si può dimenticare che gli scopi dei due inferni non erano gli stessi. Il primo era un massacro fra uguali; non si basava su un primato razziale, non divideva l’umanità in superuomini e sottouomini: il secondo si fondava su un’ideologia impregnata di razzismo. Se avesse prevalso, ci troveremmo oggi in un mondo spaccato in due, ‘noi’ i signori da una parte, tutti gli altri al loro servizio o sterminati perché razzialmente inferiori.“ Particolari esemplari di questo disprezzo sono il tatuaggio e l’uso nelle camere a gas del veleno originariamente prodotto per disinfettare le stive invase dai topi.
“L’empio sfruttamento dei cadaveri, e delle loro ceneri, resta appannaggio unico della Germania hitleriana, e a tutt’oggi, a dispetto di chi vuole sfumarne i contorni, ne costituisce l’emblema.”
Parlando ancora dei gulag e senza minimamente negarne la crudeltà, Levi continua, nell’articolo: “Neppure dalle pagine di Solzenicyn, frementi di ben giustificato furore, trapela niente di simile a Treblinka ed a Chelmno, che non fornivano lavoro, che non erano campi di concentramento, ma ‘buchi neri’ destinati a uomini, donne e bambini colpevoli solo di essere ebrei, in cui si scendeva dai treni solo per entrare nelle camere a gas e da cui nessuno è uscito vivo.” Le crudeltà dei lager nazisti non erano una imitazione ‘asiatica’ come taluni storici sostenevano, erano europee. “il gas veniva prodotto da illustri fabbriche tedesche; e a fabbriche tedesche andavano i capelli delle donne massacrate; e alle banche tedesche l’oro dei denti estratti dai cadaveri. Tutto questo è specificamente tedesco, e nessun tedesco lo dovrebbe dimenticare; né dovrebbe dimenticare che nella Germania nazista, e solo in quella, sono stati condotti ad una morte atroce anche i bambini e i moribondi, in nome di un radicalismo astratto e feroce che non ha uguali nei tempi moderni. Se la Germania d’oggi tiene il posto che le spetta fra le nazioni europee, non può e non deve sbiancare il suo passato.”
La legge intellettuale e morale di Primo Levi era sempre quella di capire dall’interno. Ne I sommersi e i salvati, Levi è riuscito a dare a ciascuno il suo, alle vittime e ai carnefici, in un discorso netto, senza asprezza, ricco di argomenti e di sfumature lessicali. Dobbiamo considerare questo libro il testamento spirituale di Levi, scritto perché e quando stava imperversando il revisionismo tedesco.

Una colpa tedesca?
Lo sforzo di capire, Levi lo fece anche nei riguardi del popolo tedesco che a partire da un certo momento aveva seguito ciecamente Hitler. Non scriveva né accettava giudizi generali sui tedeschi perché “giudizi generali sulle qualità intrinsiche, innate di un popolo mi sanno di razzismo.”
Non gli era possibile addossare alla collettività tedesca la volontà di sterminare gli ebrei, ma, dato il fatto che in Germania tutti sapevano che esistevano i lager, “si può e si deve estendere al popolo tedesco l’accusa di viltà: i tedeschi avrebbero potuto sapere molto di più sullo sterminio se lo avessero voluto, se i pochi che sapevano avessero avuto il coraggio di parlare; ma questo non è avvenuto.”
Tali giudizi diretti Levi non li pronunciava spesso, un sapore di amarezza si sente comunque qua e là, così anche nella poesia intitolata Per Adolf Eichmann:

“…O figlio della morte, non ti auguriamo la morte.
Possa tu vivere a lungo quanto nessuno mai visse:
Possa tu vivere insonne cinque milioni di notti,
E visitarti ogni notte la doglia di ognuno che vide
Rinserrarsi la porta che tolse la via di ritorno,
Intorno a se farsi buio, l’aria gremirsi di morte”.

Nessun italiano fra i firmatari antifascisti religiosi del 1930

L’appello del 1930 dei Socialisti religiosi contro il nazifascismo

Traduzione inedita per l’Italia a cura del prof. Carlo Nicola Colacino che arricchisce la pagina del sito https://ecumenici.wordpress.com/leonhard-ragaz/ e la pagina in Facebook https://www.facebook.com/leohnardragaz/?fref=ts

Unica nota di commento l’assenza di qualsiasi firma italiana e tedesca nel contesto europeo: i grandi assenti antifascisti nel panorama religioso-politico.

Come rappresentanti di un movimento, ai cui scopi appartiene un nuovo ordine sociale ispirato dallo spirito di Cristo e forgiato dalle forze del Regno di Dio, ci sentiamo profondamente turbati dall’ondata crescente di nazionalismo e fascismo nelle loro forme piu’ diverse e dal conseguente pericolo di guerra civile e tra i popoli e ci sentiamo obbligati nella nostra coscienza a rivolgere una parola di avvertimento e preghiera alla comunita’ cristiana.
Poniamo particolare attenzione a non disconoscere le ragioni ed il senso profondo del movimento nazionalista e fascista. Questo movimento e’ stato generato sia dal bisogno spirituale che dal bisogno materiale che si avvertono in tutto il mondo, ed e’ un nuovo sintomo dell’insostenibilita’ delle nostre situazioni. […] Sotto questo punto di vista, possiamo vedere anche in questo movimento un richiamo ad una riflessione piu’ profonda sul fondamento sacro ed eterno della societa’, come di tutta l’esistenza in generale.

Ma pur partendo da uno sforzo consapevole ed inconsapevole verso un rinnovamento spirituale della vita su queste fondamenta, deviano fascisti e nazionalisti verso una strada sbagliata, che li allontana dai loro scopi e li conduce proprio verso quel mondo, che dicono di voler abbandonare. Non sanno dare alcun aiuto concreto contro la poverta’ (necessita’) materiale. Le loro proposte economiche sono per la maggior parte immature e puramente demagogiche, in piu’, cosa di estrema vigliaccheria, il socialismo dei loro leader piu’ in vista non e’ altro che un’esca per intrappolare le masse verso altri scopi. Percio’ mancano loro per una costruzione organica della societa’ -meccanizzata, atomizzata, fondata dal sistema di vita capitalista solo sul denaro- anche i requisiti economici, cosi’ come quelli spirituali, e lo stato dei lavoratori, la societa’ dei popoli ed il superamento della lotta di classe sono su questo terreno pura finzione. La realizzazione violenta di cio’ che potrebbe crescere naturalmente spoglia l’ideologia fascista di ogni verita’. La democrazia viene depauperata ad una forma di demagogia, che nella sua unione di crudezza e di raffinatezza supera tutto cio’ che e’ stato finora. Anche la dittatura diventa il coronamento della demagogia. Nessun uomo serio e retto puo’ vedere in cio’ (nella dittatura) la soluzione al problema dell’autorita’ e della guida materiale e spirituale.[…] La dittatura poi non crea davvero ordine, ma solo ordine apparente, al quale segue inevitabilmente il caos. E ancor meno nazionalismo e fascismo desiderano superare l’imbarbarimento della moderna civiltà. A parte il fatto che la dittatura stessa, come insegna l’esperienza, è essa stessa una forma della peggiore corruzione, a questo movimento, che idolatra l’istinto primordiale, mancano le premesse spirituali per un rinnovamento del mondo. Così come mancano le premesse economiche, visto che tale movimento non vuole né può seppellire l’ordine capitalista, che è la causa principale di questo imbarbarimento. E in finale fallisce il fascismo proprio là dove ha il suo centro: il nazionalismo,che vuole preservare e liberare i popoli, li distrugge invece, secondo lo slogan che perde la propria vita che, egoisticamente la vuole mantenere. Alla fine la politica estera nazionalistica non condurrebbe i popoli europei alla liberazione, ma li farebbe piombare nel caos e nel declino. Il fascismo, visto dalla luce della realtà con la quale ci dobbiamo confrontare è un’utopia romantica, fondata sull’incerto, una pericoloso idea infantile, una demagogia senza scrupoli.
Quello che però ci preoccupa maggiormente è l’inostenibile contraddizione che si verifica quando questo movimento s’incontra con quelle forze spirituali che noi intendiamo quando pronunciamo la parola Cristo. Questo oggi vale in particolare per il nazionalismo. Questo diventa una religione fanatica di audoidolatria razzista e populista, che non solo contraddice la realtà storica nonché l’evidenza della scienza, ma che non ha davvero nulla a che fare con Cristo, anzi devia dal concetto di unico Dio e Padre di tutti gli esseri umani e riconduce alle molte pseudodivinità eroiche dei popoli nella loro forma peggiore e alla fine degenera in un culto demoniaco del Moloch. Ma il nostro Cristianesimo, le nostre chiese, si sono così allontanate dal sentimento della verità costituente del cristianesimo da non vedere una simile degenerazione? Se così fosse, sarebbe giunta l’ora del nostro inarrestabile declino. Come può un giovane cristiano identificarsi con un movimento razzista, che esclude i fratelli di altri popoli e razze dalla dignità e dalla cultura, come può identificarsi in particolare con la rozzezza del solito antisemitismo, quando la parola degli apostoli dice: “non c’è né Ebreo né Greco, né cavaliere né schiavo, né uomo né donna, ma siamo tutti uno in Cristo Gesù”? Sicuramente anche per un giovane cristiano la Natura, come creazione di Dio, ha il suo diritto, ma la natura dev’essere liberata dai biechi istinti tribali e dai demoni tramite forze che la trascendono e che trovano la loro massima espressione nella croce. Al di sopra di popolo e patria c’è il regno di Dio col suo ordine santo. Se obbediscono all’ordine divino, se si fanno servitori del Regno di Dio, crescono grandi e sani, se viceversa obbediscono solo a se stessi e ai loro istinti divengono preda del demonio, propagano la maledizione e diventano essi stessi maledizione.
Non ci si puo’ lasciare ingannare sul vero carattere del movimento dalla sua apparenza cristiana. Senza considerare, che la confessione cristiana nella loro bocca spesso e’ pura e bieca demagogia, cioe’ il peggior abuso del Sacro per scopi estranei, non si puo’ non notare che loro trasformano spesso la croce di Cristo nella croce uncinata (“Hakenkreuz: svastica, croce uncinata”), cioe’ trasformano il simbolo per eccellenza dell’amore gratuito e salvifico di Dio per tutti nel segno di un’esclusivita’ autoalimentantesi, arrogante, simbolo anche di odio e violenza. Non e’ questa il peggior abuso della croce cui si possa pensare? Voi rappresentanti della fede in Cristo, non lo vedete? Non vedete quale mostruoso pericolo per le cose di Cristo si celi in questa mistificazione? Quando il pensiero violento, strettamente legato a questa idolatria del nazionalismo con un’arroganza finora sconosciuta grida il suo credo al mondo, chi sarebbe cosi’ sedato, da non vedere cio’ come una totale assenza di Dio? Ed il despotismo cesareo, che trasforma in dio uno stato, che non lascia valere nulla al di fuori di se stesso, che non si concede alcuna moderazione della propria ideologia e che schiaccia i propri avversari con la violenza e l’omicidio, come puo’ esistere un tale despotismo accanto alla pretesa di liberta’ degli uomini in Cristo, che e’ il fondamento del protestantesimo, e accanto alla pretesa della signoria di Cristo su tutto il mondo e tutte le forme viventi, che e’ il significato piu’ profondo del cattolicesimo?
Svegliatevi, voi che vi siete fatto abbagliare dal fascino e dal fumo del nazionalismo e del fascismo, prendete coscienza del pericolo che sta di fronte a voi. Risvegliatevi alla verita’ di Cristo, ritornate da Cesare e Wotan a Cristo, ritornate dalla prosopopea accademica alla corona di spine del Figlio dell’Uomo, dalla svastica alla vera croce, che sola assicura la vittoria sul mondo. L’alleanza del Cristianesimo col nazionalismo ed il fascismo e’ una caduta verticale dalla verita’ di Cristo ed e’ un pericolo piu’ grande di quanto non sia un nemico dichiarato.
La giustizia e la verita’ di cui si fa portavoce questo movimento vengono persi in stoltezza, demagogia e in smarrimento demoniaco, pertanto sta a noi il compito, di difendere questi valori in modo migliore. Questa via migliore la vediamo in un ritorno dall’idolatria di un mondo che svanisce nel sangue, nel caos e nella maledizione verso quel Dio vivente, il cui cuore e la cui volonta’ si manifestano per noi in Cristo. Dio e’ l’autorita’ su cui deve fondarsi una societa’ che voglia avere un’ esistenza, lui e’ anche la liberta’. Il bisogno materiale e spirituale, la mancanza delle cose piu’ essenziali accanto al superfluo per i piu’ ricchi, la mancanza di lavoro accanto ad una grande quantita’ di compiti da svolgere, la razionalizzazione spietata e inumana del lavoro, la meccanizzazione, atomizzazione e la riduzione della vita al puro possesso materiale, che portano alla rovina, all’appiattimento, all’impaludamento dell’umanita’, possono essere superate solo tramite un ritorno da mammona a Dio, dai beni materiali all’anima, dal profitto all’uomo, dalla concorrenza alla solidarieta’, dalla degenerazione di tutte le forme di vita in un’idolatria all’ordine salvifico e primitivo della Creazione. In questo modo brillano di nuovo, come rinnovati, i veri obiettivi e scopi della vita, per cui vale la pena vivere. In questo modo si puo’ davvero realizzare una societa’ dei popoli, un lavoro pieno di significato, una cultura con un’anima. Sulle basi di un simile rinnovamento sociale e religioso, di una nuova fede ed un nuovo amore, che conducono alla giustizia, puo’ sorgere una nuova democrazia ed una nuova leadership. Qua si uniscono la vera liberta’ ed il vero ordine. Le forme della democrazia possono essere diverse, il principio rimane sempre la necessaria realizzazione del messaggio dell’amore di Dio e dell’uguaglianza e della fratellanza tra gli uomini. La via verso una nuova liberta’ dei popoli passa attraverso il rifiuto dell’esaltazione della violenza e dell’egoismo nazionalista e si manifesta nel credo in una societa’ dei popoli sulla quale il sacro diritto di Dio vale per tutti e nella quale regna un ordine pacifico tra i popoli, nella cui protezione ogni popolo puo’ fiorire. Questo cambiamento forma la premessa per una liquidazione definitiva delle guerre mondiali, per il superamento di ogni guerra, sia delle guerre civili che delle guerre tra nazioni. Non la repressione del movimento socialista dei lavoratori ed il ripristino di immagini superate di Dio e’ il senso del momento ed il nostro contributo, bensi’ una profonda unione delle forze del sociale con quelle del rinnovamento spirituale in una sola forza ed una sola corrente.
La situazione dell’Europa, che si caratterizza da una crescente lotta in particolare tra il fascismo ed il socialismo, implica anche un violento ammonimento alla Cristianita’ affinche’ prenda coscienza di se stessa, esca dalle false vie e torni all’azione utile anziche’. Soprattutto le orribili cose che sono la disoccupazione e la crescente miseria, mancanza di mezzi sussistenza di una sempre piu’ grossa fetta della popolazione ammoniscono e spingono a decisioni grandi e veloci. Altrimenti Natale diventa una bugia. Non con gli dei della semplice natura verso l’idolatria, ma con Cristo verso Dio e verso l’uomo va la strada della salvezza.
Der Internationale Ausschuß der religiösen Sozialisten.
Der Präsident: Dr. L. Ragaz, Zürich.
Für Deutschland: Erwin Eckert, Pfarrer, Mannheim. Für England: Fred. Hughes, Parlamentsmitglied, London. Für Frankreich: Professor Paul Passy, Paris, Bourg la Reine, Seine. Für Holland: Dr. W. Banning, Barchem. Für Österreich: Otto Bauer, Redakteur, Wien. Für Schweden: J. M. Ljungner, Oerebro. Für die Schweiz: Dr. L. Ragaz; Hélène Monastier (Sekretärin).

La Rosa Bianca

L’IMPORTANZA DELLA “ROSA BIANCA” PER IL FUTURO DELL’EUROPA
Conversazione tenuta a Belluno il 5.2.1996
 

di Franz Josef Mueller [1]

Con l’inserimento di questa testimonianza desideriamo focalizzare uno dei “punti luce” presenti nella storia del nostro tempo, perché riteniamo sia importante che, insieme al non abbassare la guardia di fronte al pericolo e all’orrore della crudeltà – pensiamo con profonda condivisione e rispetto al “Giorno della Memoria” – venga alimentata anche la speranza sulla capacità dell’uomo di scegliere per la Vita e non per la morte e il ricordo incida veramente nelle coscienze e non rimanga confinato negli angusti confini  della giornata di commemorazione o in momenti staccati dalla vita e dalla storia di ogni giorno sulla quale si intesse la storia dei popoli. È importante, soprattutto per le nuove generazioni, la conoscenza e la denuncia del male, ma occorrono anche modelli positivi. Quindi, oltre alla memoria del male, è bene venga tenuta desta anche quella di chi non si è allineato con i carnefici; molte persone e vicende in questo senso sono conosciute collettivamente: è per questo che Israele riconosce e fa memoria de “I Giusti tra le Nazioni”.

Discorso tenuto da Romano Guardini
Università di Monaco il 12 luglio 1958

Commemorazione dei giovani antinazisti
Tubinga, 4 novembre 1945

È una lettura del passato che contiene profonde riflessioni emblematiche e significative anche per il nostro tempo. Può essere interessante scoprire che nell’opposizione al Terzo Reich confluirono i principali filoni del cattolicesimo tedesco di inizio ’900: l’associazionismo caritativo, la teologia ‘sociale’ di Guardini e i difensori dello Stato di diritto come Von Galen

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   [2] Sono un sopravvissuto del gruppo della “Weisse Rose”, un condannato dal “Volksgerichtshof” (Tribunale della rivoluzione di Berlino), che da solo ha condannato a morte cinquemilatrecento persone. I membri della Rosa Bianca sono stati processati a Monaco e Amburgo. Quindici appartenenti al gruppo sono stati condannati a morte e trentotto incarcerati. Alla fine della guerra siamo stati liberati dagli americani.

Sono della città di Ulm, la città della famosa cattedrale gotica. Ulm è anche la città di Hans e Sophie Scholl e di sei altri giovani che con noi frequentavano il ginnasio classico, con lo studio del latino e del greco. Era un ginnasio che non aderiva allo spirito nazional-socialista e questo era molto importante per noi allievi. Voglio introdurvi subito nell’argomento della mia relazione e citare un passo sorprendente del nostro volantino n° 5 che tratta dell’Europa – questo volantino è stato scritto nel gennaio del 1943 – è un passo straordinario perché in esso i miei amici svilupparono il senso del futuro dell’Europa:

“Che cosa ci insegna la fine di questa guerra che non è mai stata nazionale? L’idea imperialista del potere, da qualunque parte essa provenga, deve essere resa innocua per sempre. Un militarismo prussiano non deve più giungere al potere. Solo attraverso un’ampia collaborazione dei popoli europei si può creare la base su cui sarà possibile una costruzione nuova. Ogni potere centralizzato, come quello che lo stato prussiano ha cercato di instaurare in Germania e in Europa deve essere soffocato sul nascere. La Germania futura potrà unicamente essere una federazione. Solo un sano ordinamento federalista può oggi ancora riempire di nuova vita l’Europa indebolita. La classe lavoratrice deve essere liberata mediante un socialismo ragionevole dalla sua miserabile condizione di schiavitù. Il fantasma di un’economia autarchica deve scomparire dall’Europa. Ogni popolo, ogni individuo hanno diritto ai beni della terra! Libertà di parola, libertà di fede, difesa dei singoli cittadini dall’arbitrio dei criminali stati fondati sulla violenza: queste sono le basi della nuova Europa”[3].

Sorprende trovare un’affermazione di questa natura in una Germania che ha portato violentemente la guerra nel centro dell’Europa. In questo volantino viene espresso un chiaro rifiuto ad ogni sorta di centralismo, a Berlino, un rifiuto anche all’atteggiamento morale dei tedeschi, che ci provocò grandi disgrazie e che si esprimeva nell’espressione diffusa: “Il comando è comando: gli ordini provengono da Berlino e vanno eseguiti.” Noi diciottenni del ginnasio e i due Sophie e Hans Scholl, rispettivamente più anziani di noi di tre e cinque anni, provenivamo da una libera città del Reich. Fino al 1806 Ulm era stata infatti amministrata autonomamente, e un po’ di quello spirito indipendente era ancora presente. La Rosa Bianca era molto conosciuta nella città, ma a Ulm c’erano altri tre gruppi di giovani oppositori che tentarono persino una forma di resistenza ancor nell’anno 1944. Ulm era dunque ancora un centro di spiritualità libera e liberale e in opposizione a Berlino e alla Prussia.

Questa riflessione è un presupposto per comprendere il contesto ambientale nel quale è sorto il nostro gruppo. Ulm era una città riformata, vale a dire che la maggioranza degli abitanti era protestante. Anche la minoranza cattolica a Ulm operava molto intensamente. Il nostro gruppo di giovani ricevette impulsi determinanti per opera di tre giovani sacerdoti cattolici. Nella scuola non c’era la lezione di religione, ma noi ci incontravamo in privato, si può dire in gran segretezza, di notte, utilizzando gli ingressi posteriori. Il gruppo era costituito da quasi 20 giovani che non si esercitavano contro il nazionalsocialismo bensì nella lettura dei documenti della grande spiritualità tedesca: Goethe, Schiller, Hoelderling, Thomas Mann, Lessing e in particolare un dramma che in Germania era severamente vietato, “Nathan der Weise”, il grande dramma di Lessing. Dunque leggevamo il dramma di un ebreo che si rivela come il fratello, il prossimo e che noi leggevamo interpretando i diversi ruoli. Quelli furono i primi passi verso la resistenza che inizialmente era solo opposizione; più tardi si arrivò alla vera e propria resistenza.

Un’altra fonte che ci rese immuni al nazionalsocialismo fu il nostro antico ginnasio. Esso era stato fondato nell’anno 1293 – oggi sono oltre 700 anni e noi ne siamo orgogliosi  -. Studiavamo greco e al secondo anno traducevamo i dialoghi giovanili di Platone. In questi dialoghi viene trattato frequentemente il problema della giustizia nella polis, nella città, e Socrate che conduce il dialogo confuta ai suoi discepoli l’affermazione che ciò che è di vantaggio alla città sia allo stesso tempo buono. Socrate afferma invece che bisogna porsi l’interrogativo se ciò che è di vantaggio sia anche giusto, se a lungo termine possa essere di utilità alla polis. Un giorno – avevamo letto in classe questa traduzione – usciti dalla scuola vedemmo affisso un manifesto di Josef Goebbels, il ministro della propaganda uomo molto capace dei nazisti: nel manifesto, diffuso in tutta la Germania, c’era scritto: “Bene è ciò che ci aiuta a vincere”.

Dunque l’obbiettivo immediato era quello della vittoria. Attraverso i dialoghi che ci aveva tramandato Platone noi potevamo capire che in quel momento si stava producendo un pericoloso corto circuito che incitava e giustificava i cittadini a compiere qualsiasi tipo di misfatto se essi credevano che potesse tornare di utilità alla vittoria. Tutto questo generò conflitti fra di noi studenti e ciò si fa spiegare dal fatto che noi avevamo allora anche una istituzione educativa d’influenza negativa, risoltasi tuttavia positivamente per alcuni di noi, vale a dire la “Hitlerjugend”.

L’adesione alla “Hitlerjugend” non era volontaria, dal ’38 noi dovevamo per legge e senza eccezioni entrarvi a far parte, esclusi erano naturalmente i paesi decentrati , non raggiunti dai nazisti. Molto presto cademmo in situazioni conflittuali con noi stessi e con altri perché non condividevamo le punizioni inflitte e di cui si sentiva parlare. Il comportamento dei nazisti e dei Führer della Hitlerjugend fu quello di picchiarci ed io, in uno di questi episodi, ne sono uscito con la clavicola rotta.
Tutto questo non alimentava certo la nostra amicizia per i nazisti e fu un ulteriore fattore che ci spinse lentamente all’ostilità verso di loro.

La nostra esperienza della Hitlerjugend fu solo negativa, perché vissuta come imposizione. Organizzammo un furto presso la centrale della Hitlerjugend di Ulm, sottraendo la nostra documentazione cosicché il nostro gruppo divenne per loro inesistente.
Negli ultimi tre anni la Hitlerjugend non fu più attiva e da quel momento iniziò la nostra azione di opposizione e di resistenza. Dopo aver tracciato per voi questo retroscena, vorrei arrivare al tema dell’Europa così come noi la concepivamo, nella nostra esperienza di guerra.

Dapprima la Germania venne invasa da milioni di prigionieri che provenivano da vari paesi: inizialmente dalla Russia, dalla Francia, poi dalla Jugoslavia, dalla Polonia e a partire dall’agosto ’43 anche dalla Italia. Erano in parte prigionieri condannati a lavori forzati. Con questi uomini, che secondo l’ideologia nazista provenivano da razze inferiori, cercavamo contatti: per primi con i polacchi, che erano persone molto gentili. Discutevano con noi, erano cattolici come noi, venivano con noi in chiesa alla domenica. Nella fattoria di mio zio c’era poi una famiglia russa, di Leningrado. Erano persone straordinariamente cortesi, sedevano a tavola con noi, e a Natale ricevevano regali; li trattavamo da persone. Non erano né più saggi, né più stupidi di noi. Il figlio unico di questi russi frequentava la scuola tedesca del paese ed era il migliore nella sua classe. Voi potete capire cosa tutto questo potesse significare se ci confrontavamo con la teoria razzista, secondo la quale la razza germanica era superiore e generatrice di cultura.

Per quanto mi riguarda, nell’anno 1942 raccoglievo spesso la frutta nella nostra fattoria e un giorno, cadendo da un albero, mi fratturai un piede. Nelle sei settimane di convalescenza lessi undici opere di Dostojeski, la più amata fra le quali era il racconto dei fratelli Karamazof . Da allora in poi per noi divenne assurda ogni affermazione nazista che voleva i russi come razza culturalmente inferiore.
Nel frattempo venimmo a trovarci in una situazione assai difficile. In Germania il nazionalismo assunse i connotati assolutistici anche del militarismo. Questi nazionalismo e militarismo dirompenti diedero poi, per nostra disgrazia, via libera al nazionalsocialismo. Molti tedeschi, con cui parlavamo, dicevano di sostenere non i nazisti, ma la Germania, perché bisognava essere dei “buoni tedeschi”. Essi non riuscivano a comprendere che gli obiettivi del nazismo e dei “buoni tedeschi” erano i medesimi e conducevano alla guerra. Chi andava in guerra e combatteva per Hitler però, non combatteva per la Germania, bensì per il nazionalsocialismo.

Dopo il 1943, era per tutti ormai evidente che la guerra era perduta ed era solo una questione di tempo: essa sarebbe durata fintanto che sopravvivevano i nazisti. Sophie Scholl afferma, come risulta nella nostra documentazione: “… Noi dobbiamo perdere la guerra, altrimenti non torneremo mai più liberi…” . Ed è molto difficile dire a un popolo “dobbiamo perdere la guerra” perché altrimenti non ci sarà più la libertà. Noi diciottenni dovevamo porci di fronte a questa spaventosa alternativa.

Noi tutti dovemmo andare soldati. Io arrivai a Epinal, in Francia, per i primi tre mesi di servizio. Là seppi dell’ imprigionamento e della condanna a morte di Sophie e Hans Scholl. Tentai di entrare, pur soldato tedesco, in contatto con la Resistenza francese. In quelle circostanze mi resi conto di come eravamo considerati noi tedeschi nel resto dell’Europa. La Resistenza francese mi respinse, benché io avessi detto che mi sarei consegnato, portando con me un’arma. Io per loro potevo essere un agente provocatore e comunque con i tedeschi non si voleva aver nulla a che fare.

A Epinal venni poco dopo arrestato, tradotto a Monaco e sottoposto a processo[4]. Questa era la situazione di un diciottenne tedesco, antinazista attivo per formazione cristiana e per convincimento filosofico e politico, convinto che Hitler avrebbe portato tutti alla rovina, e che in nessun posto in Europa avrebbe potuto trovare aiuto: non in Francia, non da parte dei prigionieri russi di religione cristiana. La realtà di un individuo nella Resistenza tedesca era di abbandono, solitudine e soltanto all’interno di un gruppo di amici – e la Rosa Bianca era costituita solo da amici – si poteva parlare e sentire come esseri umani. Noi affermavamo che il nazionalismo e il centralismo tedeschi erano stati il presupposto per il nazionalsocialismo e la sua guerra.

Noi riflettevamo sul come tutto ciò si fosse potuto evitare e qui torno a fare riferimento alla lettura introduttiva sul federalismo europeo, sulla Germania federalista: uno fra i nostri convincimenti più importanti era infatti quello che gli stati nazionali mettessero a rischio il futuro dell’Europa se nazionalisti e militaristi. Bisognava trovare altre soluzioni. Noi tedeschi e, forse, anche voi italiani, non abbiamo molte difficoltà in questo senso, perché siamo diventati stati nazionali molto tardi. La Germania ha molte regioni, oggi la Germania ha quindici Laender, in parte autonomi: la Baviera, ad esempio, è autonoma a tal punto da poter essere costituzionalmente autorizzata, ad uscire dalla federazione germanica.

Questo federalismo è per noi tedeschi, ma io credo per tutta l’Europa, la più importante garanzia che queste spaventose guerre e conflitti nazionalisti che ha avuto il passato non si ripetano. Non serve che io parli del nazionalismo: noi tutti abbiamo sotto gli occhi qui vicino, nella Jugoslavia, che cosa esso significhi … Vorrei dire, rapportandomi alla realtà attuale, che se si persegue soltanto un’Europa dell’economia, dell’efficienza economica, questa non è l’Europa che noi della resistenza, e altri ancora, volevamo.

Se l’Europa non farà riferimento alla sua cultura, alla sua storia spirituale non sarà un’Europa in grado di lasciare una eredità buona e utile per gli uomini. Jean Monnet, che assieme ad Adenauer e De Gasperi fu uno dei padri della prima comunità europea, quella del carbone e dell’acciaio, affermò, poco prima di morire: “Se io dovessi rifondare l’Europa, proverei ad iniziare dalla cultura europea”.

L’anno scorso, ho visto una trasmissione da Bruxelles su un tribunale dell’eurocrazia, un tribunale amministrativo. Vi sono impiegate complessivamente trentunomila persone, dislocate a Bruxelles, in Lussemburgo e a Strasburgo. Sapete invece quanto grande è il dipartimento cultura presso la Commissione Europea a Bruxelles? Quanti uomini ci lavorano? Ventisette in tutto! Questa non è soltanto una cifra insignificante, questo è un segnale che questa Europa che sta sorgendo non è sulla buona strada.

Non intendo richiamare genericamente il concetto di cultura europea senza tracciarne il contenuto; voglio enunciarvi un punto determinante, senza il quale l’Europa non sarà quella che noi vorremmo: si tratta dei Diritti dell’uomo, formulati per la prima volta in Europa, da parte di popoli diversi, scritti, proclamati, diffusi attraverso la Rivoluzione francese. Noi li abbiamo denominati “Diritti fondamentali” e nella nostra Costituzione tedesca troviamo scritti al primo posto i “Diritti personali del cittadino”. Questi diritti non sono solo proclamati bensì essi sono appellabili direttamente davanti al giudice: si può, ad esempio, ricorrere al giudice affermando di essere stati lesi nel diritto fondamentale alla salute e denunciare lo stato, il Land ecc. È importantissimo che questi siano diritti positivi e che il diritto di un popolo li garantisca.

Di recente ero in Olanda a parlare con Hugo Degrot il quale affermava che a fondamento della Europa ci sono gli umanisti europei, come ad esempio l’italiano Benedetto Croce e altri, e che non possiamo permettere venga cancellato dalle discussioni su nazionalismo, economismo, euro e marco, ecc. Dobbiamo chiederci come sia allo stato attuale praticata l’osservanza dei diritti dell’uomo in questo continente perché solo attraverso il rispetto di essi questo continente diverrà in futuro più umano e vivibile.

Voglio concludere questi miei pensieri e riflessioni con un’ulteriore espressione di speranza per l’Europa richiamando ancora la Resistenza europea: per i diritti fondamentali dell’uomo la Resistenza europea ha combattuto nei vari paesi. Voi avete ascoltato le nostre rivendicazioni contenute nel volantino n°5: libertà di pensiero, libertà di fede religiosa. Per questi diritti sono morte migliaia di persone in tutta l’Europa, in Italia come anche in Germania.

In questo secolo abbiamo posto le basi per una Europa migliore attraverso il processo difficile e drammatico della Resistenza europea. Oggi non dobbiamo comportarci come se questo passato fosse superato: in Germania oggi questo certamente non accade. Il 27 gennaio, due settimane fa, è stata istituita per la prima volta in Germania, una giornata nazionale di commemorazione di tutte le vittime del nazionalsocialismo. Non dobbiamo dimenticare!

Vorrei ancora aggiungere due considerazioni: non si sa molto della Resistenza tedesca, gli stessi tedeschi per venti, trent’anni non ne hanno quasi parlato a causa della cattiva coscienza per aver voluto seguire Hitler. Oggi le cose sono cambiate ed io posso fornire a voi dati storici raccolti da qualche anno a questa parte. La Resistenza tedesca non è stata così piccola come si potrebbe supporre e ci risulta il contrario dalle dalle cifre che ci provengono dall’Istituto di Storia contemporanea di Monaco. I nazionalsocialisti ed i loro alleati uccisero più di 130.000 tedeschi, rinchiusero alcune centinaia di migliaia di persone in campi di concentramento, penitenziari, carceri sottoposero ad interrogatori della Gestapo più di un milione di persone.

Nel 1933 si contavano in Germania 66 milioni di abitanti .
La Gestapo torturò Sophie Scholl per quattro giorni, dal 18 al 21 febbraio 1943. Sophie Scholl era la persona più forte all’interno del gruppo della Weisse Rose, la più determinata, la più sincera e la più attiva. Era una giovane donna e fu ghigliottinata a ventun anni. Il cappellano del carcere che la vide poco prima dell’esecuzione testimonia che era senza paura, calma. L’uomo della Gestapo che conduceva l’interrogatorio le chiese alla fine: “Signorina Scholl, non si rammarica, non trova spaventoso e non si sente colpevole di aver diffuso questi scritti e aiutato la Resistenza, mentre i nostri soldati combattevano a Stalingrado? Non prova dispiacere per questo?”, e lei rispose: “No, al contrario! Credo di aver fatto la miglior cosa per il mio popolo e per tutti gli uomini. Non mi pento di nulla e mi assumo la pena!”

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Note

[1] Franz Josef Mueller è l’attuale presidente della fondazione “Weisse Rose”, fondata nel 1986 a Monaco di Baviera da componenti e superstiti del gruppo e da parenti e amici dei membri giustiziati. Vicepresidenti sono: Anneliese Knoop-Graf e Marie Luise Schultze -Jahn. Obiettivi della Fondazione, alla quale tutti possono aderire, sono:

1) Diffondere la conoscenza della Rosa Bianca attraverso mostre e pubblicazioni,
2) promuovere la ricerca di fonti e notizie in archivi,
3) creare un luogo di informazione e documentazione nonché un archivio della Rosa Bianca,
4) Curare i contatti con insegnanti e alunni delle scuole attraverso relazioni e discussioni presso tutte le istituzioni culturali,
5) Cooperare – soprattutto con il Goethe Institut – per diffondere all’estero la conoscenza della Rosa Bianca e promuovere uno studio differenziato della storia tedesca,
6) Collaborare con gruppi e istituzioni – soprattutto ebraiche – che operano contro il razzismo e ogni forma di intolleranza.

[2] La registrazione della conferenza è avvenuta in data 5 febbraio 1996 all’Auditorium di Belluno. La presenza di Franz Josef Mueller a Belluno è avvenuta in concomitanza con la Mostra sulla “Rosa Bianca” – “Die Neinsager” Tedeschi contro Hitler, ospitata presso il Liceo Classico “Tiziano” di Belluno, dall’ 1.2 al 18.2. 1996. (Deregistrazione, traduzione e adattamento di Giovanna Padovani)

[3] I testi dei volantini della Rosa Bianca sono contenuti nell’opuscolo della Mostra: La rosa Bianca: La resistenza degli studenti contro Hitler, Monaco 1942/43. L’opuscolo può essere richiesto presso la Biblioteca civica di Belluno

[4] Franz J. Mueller fu processato nel secondo processo ai membri della Rosa Bianca, tenutosi il 19 aprile 1943 a Monaco. I tre principali accusati di alto tradimento, poi condannati a morte, erano Alexander Schmorell, Willi Graf e il prof. Kurt Huber, F.J. Mueller venne condannato a pena detentiva, assieme ad altri 11 amici “per aver diffuso volantini e non aver denunciato, per quanto a conoscenza, l’impresa di alto tradimento”.