“Sulla mia pelle”: caso Cucchi, quel sadismo che punta il debole

30.08.2018 – Bruna Alasia Articolo 21

“Sulla mia pelle”: caso Cucchi, quel sadismo che punta il debole
(Foto di screenshot di Wikimedia)

Molti qui al Lido hanno nel pensiero le torture inflitte ai migranti in Libia, riportate dai giornali, per le quali è rimasto sconvolto Papa Francesco. Di fronte a simile orrore viene spontanea la domanda per quale ragione l’uomo si degradi a tanto e l’assenza di risposta solleva angoscia. Con questo stato d’animo assistere al film sul caso Cucchi, il rigoroso “Sulla mia pelle” di Alessio Cremonini che sarà distribuito da Netflix via internet e in alcune sale, viene spontanea l’associazione con il sadismo insito a ogni latitudine, quello che appena può punta l’individuo più debole e indifeso. In altre parole: se si dà a un sadico un minimo di potere si otterrà un torturatore.

Alessio Cremonini non ci mostra nulla di queste sevizie: una regia equilibrata, essenziale, scrupolosa, ottiene però l’effetto di essere credibile e dunque di commuovere, anche perché gli attori protagonisti – Alessandro Borghi nei panni di Stefano Cucchi, Jasmine Trinca in quelli della sorella – sono davvero bravi e per di più somiglianti fisicamente. Il volto emaciato e coperto di ematomi del ragazzo ex tossico-dipendente che fu arrestato il 22 ottobre del 2009 e picchiato a morte torna alla memoria riconoscibile in pieno. Il procuratore della Repubblica di Roma Giuseppe Pignatone sul suo decesso disse a suo tempo: «Non è accettabile, da un punto di vista sociale e civile prima ancora che giuridico, che una persona muoia non per cause naturali mentre è affidata alla responsabilità̀ degli organi dello stato».

Quanti sanno in realtà cosa esattamente accadde a Stefano Cucchi? Perché, malgrado stesse molto male, un muro di omertà non rese possibile fornirgli un vero aiuto? “Sulla mia pelle”, realizzato ancor prima che il processo sia giunto a conclusione definitiva, attinge con esattezza alle carte, colma un vuoto di conoscenza e fa riflettere su quella che Erich From chiamava “distruttività umana”. Sdoganarla, giustificarla, non riconoscerla, fa parte di una cultura che punta a schiacciare i più deboli, i diversi. “Sulla mia pelle” che concorre nella sezione Orizzonti, quella che ha Venezia contiene le nuove proposte, aiuta a capire un fenomeno umano dal quale tutti dobbiamo guardarci.

L’insostenibile eredità dei test nucleari … una vera guerra nucleare

29.08.2018 Angelo Baracca

L’insostenibile eredità dei test nucleari … una vera guerra nucleare
(Foto di vegasmuseums.com)

La grande ambientalista Rosalie Bertell (1920-2012) scriveva: “Fino al 1963 i militari hanno effettuato i test nucleari in atmosfera, contaminandola. Si calcola che questi test abbiano causato in tutto il Pianeta un milione e mezzo di morti tra i bambini e due milioni di morti per cancro alle ossa, alla tiroide e per leucemia. Anche piccoli incrementi nelle radiazioni elettromagnetiche possono causare problemi di salute come cataratte e leucemie, possono alterare la chimica del cervello, il livello dello zucchero nel sangue, la pressione sanguigna e la velocità cardiaca”1.

L’inquinamento radioattivo della superficie e dell’atmosfera terrestre ha già causato danni incalcolabili, infermità, contaminazioni di vaste aree per incidenti o test nucleari, diventate praticamente inabitabili. Sempre Rosalie Bertell valutava venti anni fa in ben 1 miliardo e 300 milioni le “vittime dell’Era nucleare2!

La radioattività prodotta dalle esplosioni nucleari a partire dal 1945 raggiunse un valore massimo nel 1963-64 nell’emisfero nord e un anno più tardi ai tropici (nel 1963 vennero ufficialmente proibiti i test nucleari in atmosfera, anche se alcuni Stati li hanno proseguiti, la Francia fino al 1995).

Nel deserto del Nevada, negli Usa, vennero eseguiti dal 1951 al 1962 100 test nucleari in atmosfera (da Las Vegas, a un centinaio di km sottovento, e da Los Angeles si vedevano i “funghi” delle esplosioni3) e successivamente 921 sotterranei (per un totale di 1.021), che hanno lasciato una radioattività sotterranea residua pari a 4.9×1018 Bq. Ancora oggi si trova Stronzio radioattivo nei denti dei bambini americani4. Come in quelli dei bambini britannici attorno al sito nucleare di Sellafield: ovviamente il governo non potendo negare minimizza le conseguenze5.

Nel Pacifico furono eseguiti fino al 1962 ben 105 test nucleari in atmosfera. Nell’atollo di Bikini, nelle Isole Marshall, vennero effettuati 23 test nucleari tra il 1946 e il 1958, trasferendo selvaggiamente la popolazione su un’altra isola6: essi hanno hanno prodotto una spaventosa contaminazione radioattiva, da dati ufficiali della IAEA7: Trizio 3.4×1019 Bq8, Stronzio-90 8.0×1016 Bq, Cesio-137 1.3×1017 Bq, Plutonio-239 inferiore a 1.0×1015 Bq. Dopo 60 anni l’atollo è ancora inabitabile9! E per colmo di sventura gli abitanti delle Marshall ora sembrano forzati a un nuovo esilio dall’innalzamento del livello del mare a causa del cambio climatico10.

I sovietici non furono da meno nel Poligono nucleare del Kazakstan11, dove hanno lasciato una contaminazione di 3.5×1015 Bq di Stronzio-90, 6.6×1015 Bq di Cesio-137, e Plutonio-239 inferiore a 1.0×1014 Bq.

Oltre a queste contaminazioni bisogna ricordare il contenuto di scarichi radioattivi in mare valutati fra il 1946 e il 1993 in 86×1015 Bq.

Il 3 dicembre 2003 fece scalpore (a dire il vero presto dimenticato) una lettera inviata dal notissimo specialista Ernest Sternglass al Segretario per l’Energia degli USA Steven Chu12 nella quale egli denunciava “un tragico errore dei medici e dei fisici … [per avere assunto] che l’esposizione a piccole dosi di radiazioni dai test e dalle centrali nucleari non avessero conseguenze significative sulla salute … [causando] un enorme aumento di tumori e di diabete”.

1 R. Bertell, Planet Earth, the Latest Weapons of War. V. ad esempio “Dal dopoguerra ad oggi 2.056 test nucleari”, https://riprendiamociilpianeta.it/portfolio/dal-dopoguerra-ad-oggi-2056-test-nucleari/.

2 R. Bertell, Victims of the Nuclear Age, The Ecologist, novembre 1999, p. 408-411, https://ratical.org/radiation/Navictims.html.

3 Si veda ad esempio: http://www.dailymail.co.uk/news/article-3783336/A-Bomb-sunrise-Stunning-photos-atomic-bomb-tests-Nevada-desert-seen-Los-Angeles-1950s.html La troupe cinematografica di John Wayne sarebbe deceduta a causa di tumori contratti girando film nel deserto del Nevada presso il sito dei test nucleari: Harvey Wasserman e Norman Salomon, Cavie umane, l’America e l’energia nucleare: cronaca di un disastro annunciato, edito dall’associazione culturale Italia Storica di Genova, 2011.

4 Si vedano ad esempio: J. M. Gould, E. J. Sternglass et al., Strontium-90 in deciduous teeth as a factor in early childhood cancer, Int J Health Serv, 2000;30(3):515-39, https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/11109179. M. L. Wald, Study of Baby Teeth Sees Radiation Effects, The New York Times, 13 dicembre 2010, https://www.nytimes.com/2010/12/14/health/14cancer.html. Accumulation of a Radioactive Isotope in Children’s Shed Deciduous Teeth Used to Estimate Radiation Exposure from Nuclear Testing and Accidents, Then and Now, American Dental Association, 11 marzo 2016, https://www.ada.org/en/science-research/science-in-the-news/accumulation-of-a-radioactive-isotope-in-childrens-shed-deciduous-teeth.

5 Plutonium from Sellafield in all children’s teeth, 30 novembre 2003, https://www.theguardian.com/uk/2003/nov/30/greenpolitics.health.

7 Tutti i dati che riporto sono tratti dal rapporto Estimation of Global Inventories of Radioactive Waste and Other Radioactive Materials, IAEA, 2008: https://www-pub.iaea.org/MTCD/Publications/PDF/te_1591_web.pdf.

8 1 Becquerel (Bq) equivale a una disintegrazione radioattiva al secondo.

9 Bikini Atoll nuclear test: 60 years later and islands still unliveable, https://www.theguardian.com/world/2014/mar/02/bikini-atoll-nuclear-test-60-years.

10 Bikini Atoll islanders forced into exile after nuclear tests now find new homes under threat from climate change, 28 ottobre 2015, https://www.independent.co.uk/environment/climate-change/bikini-atoll-islanders-forced-into-exile-after-nuclear-tests-now-find-new-homes-under-threat-from-a6712606.html.

11 Gli spaventosi effetti si vedono ancora oggi: https://i.pinimg.com/564x/dc/0f/41/dc0f415efef9892ebf1bc4e975d67906.jpg.

12 Letter from Dr. Ernest Sternglass to Energy Secretary Steven Chu: On health dangers from ingested and inhaled radiation, https://healfukushima.org/2014/12/03/letter-from-dr-ernest-sternglass-to-energy-secretary-steven-chu-on-health-dangers-from-ingested-and-inhaled-radiation/.

Veneto, studenti si rasano contro la leva obbligatoria

28.08.2018 – Venezia Agenzia DIRE

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Veneto, studenti si rasano contro la leva obbligatoria

Presidio della Rete studenti medi e Unione degli universitari, oggi davanti a palazzo Ferro Fini, sede veneziana del Consiglio Regionale veneto, dove dovrebbe essere presentato il progetto di legge statale di iniziativa regionale per la reintroduzione della leva obbligatoria, anche se voci di palazzo anticipano che probabilmente il provvedimento slitterà per via della presenza di Matteo Salvini a Conselve, provincia di Treviso, che avrebbe messo una certa fretta di chiudere i lavori ai consiglieri leghisti.

No leva. Signornò signore“, recita lo striscione esposto dal gruppo di studenti, che manifestano rasandosi i capelli in mezzo alla calle Larga che porta in piazza San Marco, il luogo più vicino al consiglio che le forze dell’ordine gli hanno concesso di raggiungere. “Facciamo questo atto simbolico per dire: se ci volete ordinati, se ci volete schierati in fila, avrete solo i nostri capelli. Non avrete il nostro tempo, non avrete la nostra voglia di imparare”, afferma Rachele Scarpa, del coordinamento regionale della Rete.

“Noi chiediamo che il progetto di legge venga immediatamente ritirato e i 50 milioni di euro che verrebbe a costare ogni anno siano investiti in trasporto pubblico, in comodato d’uso per i libri e per un’istruzione pubblica di qualità”, conclude Scarpa.

Argentina: difendiamo la democrazia e lo stato di diritto

26.08.2018 Redazione Italia

Argentina: difendiamo la democrazia e lo stato di diritto
(Foto di Roblespepe)

Noi, organismi dei diritti umani, vogliamo esprimere la nostra profonda preoccupazione per l’attuale situazione del Paese nella quale rileviamo l’applicazione di politiche economiche che pregiudicano la grande maggioranza e che il governo può applicare soltanto con persecuzioni e repressione.

È innegabile che da poco più di due anni stiamo vivendo tempi pericolosi per l’esercizio dei diritti, per i reclami e la protesta e per esprimere pubblicamente critiche verso il governo ed i poteri. È ancora più difficile difendersi dalle ingiustizie portate avanti da membri del Potere Giudiziario.

Denunciamo che l’Argentina si trova in uno stato di eccezione permanente che permette il mancato rispetto e la violazione dei diritti fondamentali di grandi settori della popolazione.

Denunciamo che, alla luce degli scandalosi ed illegali processi giudiziari portati avanti contro importanti dirigenti dell’opposizione politica, è proprio lo stato di diritto che viene a mancare nel nostro Paese.

Denunciamo che la complicità dei grandi mezzi d’informazione non riesce a nascondere la crisi economica, né l’indebitamento, né i licenziamenti, né lo smantellamento delle politiche pubbliche di inclusione.

Inoltre vogliamo esprimere esplicitamente il nostro appoggio alla ex Presidente della Nazione, Cristina Fernández de Kirchner, che è sottoposta a una persecuzione giudiziaria, che non rispetta neanche la sua intimità, e non permette la presenza dei suoi avvocati difensori per garantire la correttezza delle procedure ordinate dai giudici.

La realtà ci indigna e ci angoscia, però allo stesso tempo ci richiede di essere all’altezza della sfida e di resistere. Continueremo a denunciare, accompagnando ogni richiesta e protesta, costruendo legami che ci permettano, il prima possibile, di sconfiggere l’ingiustizia ed alleviare il dolore del nostro popolo.

Associazione Nonne di Plaza de Mayo- Madri di Plaza de Mayo Linea Fondatrice – Familiari di Desaparecidos e Detenuti per Raggioni Politiche – Assemblea Permanente per i Diritti Umani – Lega Argentina per i Diritti dell’Uomo – H.I.J.O.S.(Figli e Figlie per l’Identità e la Giustizia contro l’Oblio e il Silenzio) Capitale -Asociazione Buona Memoria – Fondazione Memoria Storica e Sociale Argentina -APDH (Assemblea Permanente per i Diritti Umani) La Matanza – Commissione Memoria Verità e Giustizia Zona Norte -Movimento Ecumenico per i Diritti Umani – Familiari e Compagni dei 12 de la Santa Croce.

Traduzione a cura della Comunità Argentina in Italia

Incontro Orban-Salvini, presidio a Milano

26.08.2018 – Milano Redazione Italia

Incontro Orban-Salvini, presidio a Milano
(Foto di https://www.facebook.com/events/507054469717934/)

Martedì 28 agosto alle 17

Piazza San Babila, Milano

Martedì alle ore 17 in Prefettura a Milano si incontreranno Salvini e Orban.

Due muri a confronto e un’idea d’Europa sovranista e nazionalista che non ci appartiene.

Orban deve fare la sua parte, Salvini deve smettere di giocare con la vita dei migranti.

Insieme senza Muri e Sentinelli di Milano organizzano un presidio a pochi metri di distanza per ricordare a entrambi il valore della solidarietà e dell’accoglienza.

 

Moni Ovadia: accusare di anti-semitismo chi critica la politica di Israele è un’infamia

 

24.08.2018 Anna Polo

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Moni Ovadia: accusare di anti-semitismo chi critica la politica di Israele è un’infamia
(Foto di https://www.facebook.com/MoniOvadiaPaginaUfficiale)

Moni Ovadia, uomo di teatro e di cultura impegnato da tempo nella ricerca di una soluzione del conflitto israelo palestinese e per questo vincitore nel 2005 del Premio Colombe per la Pace; gli abbiamo chiesto la sua opinione sulle recenti vicende.

Chi critica la politica di Israele e in particolare le violazioni dei diritti umani dei palestinesi viene spesso tacciato di anti-semitismo. Come si può a tuo parere sfatare questa accusa?

Innanzitutto denunciandola per quello che è: un’infamia, una bieca propaganda per tappare la bocca degli uomini liberi, una viltà per impedire qualsiasi discorso sull’ingiustizia subita dal popolo palestinese e anche una forma di corto-circuito psicopatologico, di paranoia. E’ come se chi la formula vivesse nella Berlino del 1935 e non in un paese armato fino ai denti, dotato anche di armi nucleari e alleato non solo degli Stati Uniti, ma anche di fatto dell’Egitto, della Giordania e dell’Arabia Saudita. L’unico paese che fa quello che vuole e ignora le risoluzioni dell’ONU senza che la comunità internazionale muova un dito.

Io stesso ho subito questa infamia. Siccome l’anti-semitismo in Italia è un reato, ho sfidato i miei accusatori a trascinarmi in tribunale, così vedremo come stanno davvero le cose. Inoltre li ho invitati a farsi vedere da uno psichiatra per una lunga terapia.

Come giudichi la legge approvata un mese fa dal Parlamento israeliano, che dichiara Israele “Stato nazionale del popolo ebraico”?

La considero una legge che istituisce “de iure” l’apartheid e il razzismo, che esisteva già “de facto” ed esprime una logica e una mentalità colonialista. E’ una follia, quando il 20% della popolazione è arabo-palestinese e dunque Israele è già uno stato bi-nazionale.

Non sto dicendo che tutti gli israeliani abbiano questa mentalità: ci sono quelli attanagliati dalla paura e preda del mito dell’accerchiamento, quelli che preferiscono non vedere la realtà e quelli che criticano questa politica e pagano le conseguenze del loro coraggio. Purtroppo questi ultimi sono una minoranza, ma nella storia sono state spesso le minoranze a redimere e salvare. La maggioranza ha il diritto di governare, ma non quello di avere ragione.

Organizzazioni come Combatants for Peace riuniscono israeliani e palestinesi passati alla nonviolenza dopo aver partecipato ad azioni militari gli uni contro gli altri. La Marcia delle Madri ha coinvolto migliaia di donne ebree, musulmane e cristiane per esigere una soluzione nonviolenta del conflitto accettabile dalle due parti. Cosa pensi di queste iniziative?

Sono iniziative coraggiose e ammirevoli, portate avanti da persone che vengono boicottate dal governo e accusate di essere contro gli interessi di Israele. Vorrei citare anche i giovani obiettori di coscienza, che preferiscono andare in carcere, piuttosto che servire nei territori occupati e associazioni per i diritti umani come B’Tselem. Due anni fa il suo direttore Hagai El-Ad ha auspicato “azioni immediate” contro gli insediamenti di Israele durante una sessione speciale  del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sull’occupazione e ha denunciato l’”invisibile, burocratica violenza quotidiana” che i palestinesi subiscono “dalla culla alla tomba”.

Cosa possiamo fare a tuo parere come europei e in particolare italiani per contribuire a una soluzione pacifica del conflitto tra Israele e Palestina?

La prima cosa è il lavoro culturale di cui parlavo prima: non smettere mai di ribadire che la denuncia delle ingiustizie e delle sopraffazioni subite dai palestinesi non c’entra niente con l’anti-semitismo e la Shoa.

In secondo luogo, fare pressione sui governi perché prendano posizione ed esigano il rispetto delle risoluzioni dell’ONU sempre violate da Israele.

Terzo, appoggiare il movimento BDS, una campagna globale di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele, chiedendo all’Europa di sequestrare in quanto illegali le merci prodotte nei territori occupati e negli insediamenti dei coloni. Il messaggio è semplice, ma molto forte: “Non sono terre vostre, pertanto queste sono merci di contrabbando, fuorilegge e noi non le vogliamo.”

Diciotti. I profughi eritrei sono obiettori di coscienza da accogliere subito

23.08.2018 Movimento Nonviolento

Diciotti. I profughi eritrei sono obiettori di coscienza da accogliere subito
(Foto di https://www.facebook.com/Rete-Antirazzista-Catanese-468545723307207/)

Molti dei profughi sequestrati sulla nave Diciotti provengono dall’Eritrea. Sono obiettori di coscienza, renitenti alla leva o disertori che fuggono da un paese dove il servizio militare è obbligatorio a tempo indeterminato, per uomini e donne e inizia nei due anni finali della scuola superiore, che si trova in un campo militare.

L’Unione Europea riconosce il diritto all’obiezione di coscienza e la Costituzione italiana riconosce il diritto d’asilo per casi come questi. Quindi quei giovani hanno fatto bene a fuggire ed hanno tutto il diritto ad essere accolti e tutelati.

Il Movimento Nonviolento ogni anno pubblica l’elenco dei “prigionieri per la pace”, obiettori di coscienza detenuti nelle carceri militari di tutti i paesi del mondo: per l’Eritrea c’è sempre un lungo elenco, senza un “fine pena” certo.

Forse il governo italiano giallo-nero queste cose non le sa. Il Presidente del Consiglio e i ministri tutti le ignorano (tecnicamente sono ignoranti). I giornaloni non le scrivono.

Ma basterebbe leggere la nostra rivista Azione nonviolenta, che nel numero di novembre-dicembre 2017 ha pubblicato l’elenco dei detenuti obiettori di coscienza dell’Eritrea, che qui riportiamo (sono prevalentemente Testimoni di Geova, quella indicata è la data di inizio pena, mentre non è definita la data di fine pena):

Paulos Eyassu (24.09.1994—) Negede Teklemariam (24.09.1994—) Isaac Mogos (24.09.1994—) Aron Abraha (09.05.01—) Mussie Fessehaye (01.06.03—) Ambakom Tsegezab (01.02.04 —) Bemnet Fessehaye (01.02.05—) Henok Ghebru (01.02.05—) Kibreab Fessejaye (27.05.05 —) Bereket Abraha Oqbagabir (01.01.06—) Amanuel Abraham (01.01.07—) Yosief Fessehaye (01.01.07—) Yoel Tsegezab (26.08.08 – ).

Sono detenuti nel Sawa Camp, a Sawa (alcuni da 24 anni!).

Il Ministro degli Interni ha dichiarato che “sulla Diciotti ci sono tutti immigrati illegali”. Mente, non può saperlo. Sono 150 persone, maschi e femmine. Ogni singola posizione va valutata attentamente. Se qualcuno di loro, proveniente dall’Eritrea, si dichiara “obiettore di coscienza al servizio miliare”, fuggito per evitare il carcere a tempo indeterminato, rientra in ciò che è previsto dal terzo comma dell’articolo 10 della Costituzione italiana: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto di asilo nel territorio della Repubblica”.

Il riconoscimento del diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare è uno dei fondamenti dell’Unione Europea. Un obiettore di coscienza perseguitato nel proprio paese che si presenta al porto di Catania, in Europa, ha il diritto ad essere accolto e vedersi riconosciuto il diritto d’asilo.

Ad essere illegali non sono i 150 profughi della Diciotti, ma il Ministro che siede al Viminale.

Abbiamo bisogno di un salto di civiltà, non della leva obbligatoria

22.08.2018 Azione Nonviolenta

Abbiamo bisogno di un salto di civiltà, non della leva obbligatoria

In questa tragica estate il ministro degli interni ha trovato anche il modo di intervenire, in maniera del tutto estemporanea e superficiale – come usa fare abitualmente – sul tema dell’obbligatorietà del servizio militare e di quello civile: “vorrei che oltre ai diritti tornassero a esserci i doveri” – ha detto il ministro in un comizio – “facciamo bene a studiare i costi, i modi e i tempi per valutare se, come e quando reintrodurre per alcuni mesi il servizio militare, il servizio civile per i nostri ragazzi e le nostre ragazze così almeno impari un po’ di educazione che mamma e papà non sono in grado di insegnarti”.

Da obiettore di coscienza al servizio militare finora non sono entrato nel merito delle sparate di Salvini sulla leva obbligatoria, che parla di questioni che non conosce, se non osservando che in nessuna democrazia il ministro degli interni si occupa delle forze armate, né si pensa di delegare all’esercito l’educazione: è quello che accade nei regimi totalitari. Tuttavia, poiché autorevoli ricercatori hanno preso sul serio le parole in libertà del ministro (come l’amico Giorgio Beretta su Unimondo), sollecitando interventi più strutturati, provo ad aggiungerne brevemente ancora qualcuna alle tante ragioni contro la leva obbligatoria già avanzate – anche dall’interno del governo – al ministro Salvini.

La prima. Il servizio militare obbligatorio in effetti ha un valore educativo: è una formazione di massa al militarismo, di cui il cosiddetto nonnismo – ricordato spesso in questi giorni – ne è una dimensione costitutiva e strutturale. La leva obbligatoria ha rappresentato per generazioni di giovani un rito di passaggio collettivo volto a trasformare i ragazzi in uomini, attraverso la disciplina militare, fondata sull’apprendimento all’uso delle armi, sulla sospensione della democrazia in caserma, sulla sottomissione a una ottusa gerarchia, sulla formazione dell’identità – personale e collettiva – inculcata in contrapposizione alla parallela costruzione del nemico. Nessuno ha nostalgia di questa scuola di socializzazione di massa alla violenza, subita ed agita.

La seconda. Non è vero – come pure alcuni hanno scritto – che il ritorno alla leva obbligatoria porterebbe con sé il ritorno all’obiezione di coscienza al servizio militare (e quindi, potenzialmente, ad una nuova coscienza antimiltarista) perché – se capisco bene la “proposta” del ministro – l’obbligatorietà sarebbe da svolgersi opzionalmente tra il servizio militare o quello civile. Per cui i tanti che non volessero consegnare un periodo della propria vita alla naja sarebbero obbligati a fare il servizio civile, senza passare da una impegnativa dichiarazione di obiezione di coscienza. Ossia, oltre al danno avremmo la beffa: il ritorno all’obbligo di leva (militare o civile) senza la possibilità di obiettare ad esso in nome della coscienza.

La terza. C’è il Servizio civile universale da avviare sul serio. Come dal 1985 ribadisce la Corte Costituzionale, il servizio civile è la modalità civile di assolvere al “sacro dovere” (che non vuol dire obbligo) di “difesa della patria”. Anche la recente sentenza numero 171/2018, con la quale la Suprema Corte ha respinto i ricorsi di Lombardia e Veneto contro il Servizio civile universale, ribadisce ulteriormente questo principio: “Con la sua sentenza” – ha commentato la CNESC (Conferenza nazionale degli enti di servizio civile) – “la Corte ha ribadito che il servizio civile è una forma di difesa civile e non armata della Patria sancita dall’art. 52 della Costituzione e pertanto rientra tra le materie di esclusiva potestà statale”. Si trovino dunque le risorse e le modalità organizzative per consentire davvero a tutti il diritto a svolgere il dovere di difesa del Paese, anziché lanciare improbabili ed estemporanee proposte di obbligatorietà.

Infine, per quanto riguarda la cultura della nonviolenza, non bisogna perdere di vista l’obiettivo finale della nostra azione: il superamento della guerra e degli strumenti che la preparano e la rendono possibile, ossia gli eserciti e le armi. In questo orizzonte “l’esercito di popolo”, di cui anche a sinistra alcuni vorrebbero nostalgicamente il ritorno, non sarebbe un passo in avanti ma – per le ragioni descritte brevemente sopra – una drammatica regressione culturale e politica. L’esercito professionale – che pure ha consentito la partecipazione del Paese a innumerevoli interventi militari, nel ripudio della Costituzione anziché della guerra – ha almeno il merito di escludere l’obbligo per tutti di imparare il mestiere delle armi. La difesa civile non armata e nonviolenta – promossa dalla campagna Un’altra difesa è possibile – è un passo nella direzione giusta. L’esercito di leva in quella sbagliata. La vera sfida, per noi, non è di rincorrere la destra sul suo terreno, ma di far avanzare culturalmente nel Paese e legislativamente in parlamento, il disarmo e la difesa civile, non armata e nonviolenta. Il vero salto di civiltà del quale abbiamo bisogno.

Uri Avnery. Fino all’ultimo respiro

 

Uri Avnery. Fino all’ultimo respiro

20.08.2018 Patrizia Cecconi

Uri Avnery. Fino all’ultimo respiro
(Foto di caravandaily.com)

L’età – implacabile nel decretare la fine della vita per chi ha avuto la fortuna di non vedersela stroncare dalla violenza o dalla malattia – ha privato il mondo di una delle menti più lucide e oneste del sionismo.

Sionismo, termine che fa tremare le vene ai polsi ai tanti attivisti filo-palestinesi che in esso vedono solo razzismo o suprematismo fascistoide. In realtà hanno ragione se si prende il sionismo per quel che è nella sua pratica generale, ma non hanno ragione se prescindono da quella che è una delle caratteristiche fondamentali che determinano il sionismo stesso, e che figure quali Jeff Halper o Gideon Levy hanno abbracciato, cioè il sostenere giusta l’esistenza dello Stato di Israele all’interno della Palestina storica e, in alcuni casi,  lo scegliere di  diventare israeliani pur venendo da altre parti del mondo, cittadinanza acquisita semplicemente in quanto ebrei grazie a una delle due leggi fondamentali dello Stato di Israele che è la cosiddetta “legge del ritorno”.

“Ritorno” già in sé comporta un’arrogante pretesa e la base di una menzogna, ma fu la geniale trovata di Theodor Herzl, il padre del sionismo, appunto, ad essere vincente e a modificare il corso della storia nella terra di Palestina.

Se il luogo in cui far nascere lo Stato per gli ebrei fosse stato in Africa o in America Latina, come pure ipotizzato prima della scelta finale, estremamente comoda per il colonialismo europeo del secolo scorso, forse non ci sarebbe stata una “legge del ritorno” perché l’evocazione biblica non sarebbe stata tanto efficace, ma non lo sappiamo. La Storia del resto non si fa con i se o con i ma.

Il fatto è che Israele non ha ancora una vera legge costituzionale, perché la costituzione implica i confini dello Stato e sappiamo bene che Israele quei confini li ha in testa in modo molto lontano dalla Risoluzione Onu 181 cui si aggrappa per legittimare la propria nascita e alla quale, invece, non ha mai portato rispetto né l’ha mai riconosciuta, a partire dall’autoproclamazione dello Stato decretata da Ben Gurion poco prima della scadenza del Mandato britannico e, quindi, prima che la Risoluzione 181 divenisse giuridicamente operativa.

Ma al di là degli interessi imperialisti c’è da considerare, come fattore sociale, cosa potesse significare per un ebreo dopo la Seconda guerra mondiale e i campi di sterminio (ma anche dopo i ricorrenti progrom nella storia) avere un proprio Stato in cui sentirsi sicuro.

Su questa retorica, che però si fonda su basi concrete e che, solo per citare i momenti e le figure europee più rilevanti che già durante la Prima guerra mondiale hanno avuto il loro peso –  come gli accordi Sykes-Picot nel 1916 e la dichiarazione Balfour nel 1917 – è venuta a crearsi l’idea che lo Stato di Israele, all’interno della Palestina e per di più cacciando i palestinesi, cosa non prevista né dalla Risoluzione 181 né dalla dichiarazione Balfour, fosse un sacrosanto diritto del cosiddetto “popolo ebraico” che veniva di fatto a crearsi raccogliendo sefarditi e askenaziti, arabi, europei, americani e altri, unificati dalla fede religiosa e non certo dalla nazione di provenienza.

Uri Avnery fu uno di quelli e lo fu prima della grande tragedia della Seconda guerra mondiale. Tedesco, nato nel 1923 nella cittadina di Beckum nella Renania ed emigrato con la sua famiglia in Palestina quando Hitler andò al potere. Aveva solo 10 anni e non fu facile quel periodo visto che la sua famiglia aveva perso ogni ricchezza nella fuga dalla Germania nazista. Il giovanissimo Helmut, diventato poi Uri divenne un potenziale israeliano prima che si costituisse Israele.

Aveva solo 15 anni Helmut-Uri quando si arruolò nell’Irgun, la famigerata organizzazione paramilitare guidata da Menachem Begin autrice di azioni di  terrorismo ebraico delle peggiori, tra le quali si ricorda anche la strage al King David Hotel di Gerusalemme del 1946. Ma Uri ne era già uscito da quattro anni, cioè da quando aveva visto che le azioni dell’Irgun non andavano verso l’indipendenza dagli inglesi ma soprattutto erano focalizzate contro gli arabi. Sionista convinto, ma contrario alla pratica terrorista dell’Irgun, Uri Avnery abbandonò quindi molto presto la formazione che poi avrebbe dato lustro a Begin.

Ciò non gli impedì di partecipare alla guerra contro gli arabi nel 1948/49, ma non gli impedì neanche di vedere e raccontare le atrocità commesse contro i palestinesi che raccontò nel suo libro “Il rovescio della medaglia”. Libro che lo fece odiare da tanti ebrei, anche italiani e non solo israeliani, che definirono tradimento  la sua onestà intellettuale e morale.

Quest’uomo, che pur restando sionista fu un grande amico del popolo palestinese, fu tra i fondatori di un importante movimento pacifista e fu un grande e lucidissimo giornalista, oltre che scrittore. Trovando poco efficace Peace Now ne uscì e fondò Gush Shalom, movimento pacifista più radicale, senza mai abbandonare la sua visione “sionista” di ebreo che credeva giusta l’esistenza dello Stato ebraico accanto ad uno Stato palestinese.

Chi scrive andò a trovarlo a Tel Aviv nel 2011, ma aveva appena perduto l’amatissima moglie e non aveva voglia di parlare di politica, per cui l’incontro avvenne con un altro rappresentante di Gush Shalom, più giovane ma altrettanto convinto delle sue stesse idee e altrettanto critico verso Israele, Adam Keller. Adam Keller raccontò che sua madre, una donna ultraottantenne e claudicante, in una manifestazione a sostegno dei diritti del popolo palestinese venne strattonata, picchiata e vilipesa dai soldati israeliani. Una piccola cosa rispetto a ciò che subiscono ogni giorno i palestinesi, e questo era chiaro ad Adam Keller, il quale comunque ci tenne a mettere l’accento sull’episodio per dire che non era certo questo l’Israele che lui, Uri Avnery ed altri convinti assertori dell’esistenza dei due Stati avevano in mente.

In Italia i suoi articoli venivano tradotti e pubblicati dal Manifesto, giornale in qualche modo “di nicchia” e leggerli è sempre stato vero cibo per la mente. Lucido e logico nelle sue riflessioni, Avnery, già oltre 30 anni fa, mentre il mondo si prodigava in inchini e apprezzamenti che poi si rivelarono ingiustificati, proprio in un articolo pubblicato dal Manifesto definì Perez “Una menzogna che cammina”. Articolo che chi scrive portò in lettura ad un’amica ebrea di sinistra avendo in cambio l’esclamazione disperata di nascondere subito quel giornale perché in casa sua, ebrei di sinistra, era vietato anche solo pronunciarlo il nome di Uri Avnery.

Questo è solo un aneddoto, che unito a quello di Adam Keller potrebbe aiutare a far capire quanto lavoro c’è da fare per arrivare veramente a quella pace giusta al cui raggiungimento Avnery ha dedicato la vita.

L’essere stato un parlamentare della Knesset per tre legislature, fino al 1981 non lo ha salvato dalle invettive e dall’ostruzionismo delle istituzioni e del popolo israeliano sionista. Sionista nell’accezione che abitualmente si dà al termine e che i governi Netanyahu hanno notevolmente incrementato. Ma già quando nel 1982 incontrò Arafat, si dice che  il grande nemico del presidente palestinese, Ariel Sharon, avesse tentato  di utilizzarlo per eliminare Arafat dando indicazioni al Mossad di “adempiere al loro compito” anche se questo avesse comportato la morte di Avnery che andava a intervistarlo. Lo raccontò proprio Avnery, sionista di stampo diverso da Ariel Sharon, congratulandosi con i servizi palestinesi per aver scampato il pericolo.

Con lui oggi non sparisce solo una grande mente, ma una mente capace di mettere in contraddizione le più grandi e le più piccole cose, come ad esempio le decisioni liberticide della Knesset israeliana circa la pratica di boicottaggio degli attivisti filo-palestinesi con analoga decisione della Knesset a favore del boicottaggio di un certo prodotto alimentare che danneggerebbe analogo prodotto di fabbricazione israeliana. Ma Uri Avnery era veramente una mente scomoda, una mente che la falce della morte ha portato via con sé avendo raggiunto i 94 anni e che fino all’ultimo ha conservato lucidità, forza e determinazione.

Come racconta Adam Keller nel suo triste comunicarne la scomparsa, Avnery è collassato alcuni giorni fa tornando a casa dopo aver partecipato alla manifestazione contro la “nation state law” e dopo aver scritto un duro articolo contro quella legge.

Fino all’ultimo respiro Uri Avnery è stato coerente. La sua scelta di ebreo che non ha mai respinto l’esistenza dello Stato di Israele, sognandolo però democratico e rispettoso dei diritti dei palestinesi ai quali si “doveva” (e non si doveva concedere) il proprio Stato, lo ha accompagnato fino alla morte. Qualcuno lo ha definito un visionario perdente ma, come dice Adam Keller, suo ideale portavoce e successore in Gush Shalom, “i più grandi avversari di Avnery dovranno seguire le sue orme – perché lo Stato di Israele non ha altra scelta reale.”

Se sarà così o meno non lo sappiamo, ma sappiamo che Israele ha perso la mente  lucida di un ebreo israeliano di sinistra, fortemente critico e anche per questo valido ostacolo contro la deriva barbarica della destra estrema. E anche i palestinesi hanno perso un amico, benché fosse un convinto sionista, tanto convinto e tanto aperto alla dialettica politica da mandare il suo articolo settimanale anche a chi non ha mai riconosciuto il diritto all’esistenza di Israele. Perché Avnery era una di quelle figure, sempre più rare, che riconoscono nell’avversario onesto un possibile collaboratore indiretto nel grande disegno di una società più giusta.

A chi scrive, pur essendo contraria al sionismo anche nell’accezione di Uri Avnery, mancherà molto il suo contributo. Altri invece ringrazieranno la falce della natura per aver spento una voce che ancora a 94 anni aveva la capacità di battersi contro chi viola sistematicamente i diritti umani, sebbene nello specifico si tratti dello stesso paese che sentiva come propria patria. Avnery usava dire che “la differenza tra un combattente per la libertà e un terrorista dipende solo dalla prospettiva con cui si guarda”. Questo non è l’accettazione del terrorismo ma il riconoscimento e la stima per chi combatte per la libertà.

Che la terra ti sia lieve, grande combattente.

Migranti sulla nave Diciotti, appello di Eleonora Forenza

19.08.2018 Redazione Italia

Migranti sulla nave Diciotti, appello di Eleonora Forenza
(Foto di https://www.facebook.com/ForumLampedusaSolidale/)

L’europarlamentare di Rifondazione Comunista Eleonora Forenza, che tra fine giugno e inizio luglio ha seguito in prima persona la vicenda dei migranti a bordo delle navi Astral e Open Arms, della ong spagnola Proactiva Open Arms, lancia dalla sua pagina Facebook un appello a intervenire sulla vicenda della nave Diciotti,  ancora bloccata al largo di Lampedusa.

“E così, mentre noi discutiamo di applausi e fischi, il Ministro degli Interni minaccia di rimpatriare in Libia le oltre 170 persone a bordo della nave #Diciotti, da quattro giorni nel Mediterraneo. Trattasi di fatto della minaccia di violare le convenzioni internazionali in materia di diritti umani, dato che la Libia non è un paese sicuro.

Chiedo, dunque, al Presidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani di prendere parola e a ciascun/a parlamentare europea/o di attivarsi”.