Cenni introduttivi

BREVI CENNI SULLE MODALITA DELL’ARRIVO AL POTERE DEL FASCISMO

 

 

                                                       GIAMPIETRO GALLI   “GIOVANNI

( Membro del Direttivo Provinciale dell’A.N.P.I. –Varese e

e del Direttivo dell’A.N.P.I. di Olgiate Olona.)

L’avvento del Fascismo in Italia non fu un fatto casuale ma la conseguenza dei lunghi anni di stenti e di crisi per il popolo, che nella maggior parte dei casi  vide soffocate nel sangue, dagli interventi del Regio Esercito, le sue lotte e le rivendicazioni sacrosante contro le disastrose politico –  economiche  seguite dai Governi.

 

Nel 1913, mentre l’economia di tutto il mondo veniva colpita dall’ennesima crisi, le contraddizioni della politica imperialista stavano per esplodere nella I° Guerra Mondiale; per l’Italia la crisi del 1913 non fu come la precedente del 1907, cioè una brusca interruzione temporanea di una fase d’espansione, ma l’aggravamento di un processo di declino già in atto da alcuni anni.

 

Il primo tentativo di superare la “stagnazione” fu la guerra nel 1911 contro la Turchia, con lo scopo di occupare la Libia,. La guerra di Libia fu decisa sotto le pressioni di gruppi industriali e bancari interessati sia alle forniture militari, che agli investimenti in quel paese; mai come in questa guerra, la commistione fra affari economici e politica fu più stretta.

 

La Guerra libica salvò gli investimenti del gruppo bancario· che si era economicamente esposto per favorire la penetrazione italiana nel Mediterraneo. Questo gruppo fin dal 1907 aveva aperto filiali a Tripoli nel tentativo di stabilire una forma di controllo dell’economia libica. Con la guerra sul suolo africano, il governo Giolitti diede un sostegno tangibile alle richieste dei gruppi finanziari e industriali per lo sfruttamento di terre turche, in particolar modo per le miniere di carbone turche sul mar Nero e le concessioni ferroviarie in Anatolia. La manovra del governo permise il salvataggio delle industrie siderurgiche, che alla rovina e cariche di debiti, si rivelavano incapaci di reggere la concorrenza internazionale, i debiti furono liquidati con 96 milioni di lire (garanzie statali) in nome “del supremo interesse dello Stato” e la produzione assicurata dalle commesse per gli armamenti.

 

Le 5 maggiori industrie siderurgiche, tutte private, si fusero in un unico monopolio; per la prima volta furono usati gli autocarri nel deserto e gli aerei; l’innovazione costituì un “lancio” per l’industria aeronautica italiana ma, sul piano economico generale, la Guerra libica fu ben lontana dal risolvere la crisi che lo spettro della “stagnazione” manifestava; diede respiro a qualche industria, ma per contro: 70.000 italiani furono cacciati dalla Turchia;  3.431 furono i morti e 4.220 i feriti o mutilati. Anche l’industria tessile, che da un lato ebbe una boccata d’ossigeno per gli ordinativi dell’esercito, dall’altro subì un grave colpo per la perdita delle esportazioni in Medio Oriente[1].

 

Quando Giolitti ritornò al Governo nel 1911 si propose di attuare alcune importanti riforme:

 Riforma della Scuola –Il primo impegno fu dare attuazione al programma del governo Luzzatti, promovendo la legge Daneo-Credaro che, già discussa alla Camera nel 1910, venne fortemente osteggiata dai cattolici perché assegnava allo stato la maggior parte delle scuole elementari.[2] Nonostante l’iter lungo e faticoso, tale legge che non risolse il grave problema dell’analfabetismo, apportò comunque un notevole progresso, migliorarono infatti le condizioni economiche e la preparazione dei maestri e furono istituite nuove scuole.

La facoltà del Re per la scelta dei senatori – Sulla proposta di modifica all’art. 33 dello Statuto, l’apposita Commissione pur ammettendo la possibilità di una legge interpretativa, diede un parere negativo bloccandola al Senato. Al Re rimase quindi la facoltà nella scelta dei senatori.

Il suffragio universale – Il 4° Ministero di Giolitti disegnò anche una riforma elettorale che diventò elemento qualificante in senso democratico del programma giolittiano; infatti prevedendo il suffragio universale, prevenne una mobilitazione del P.S.I. e della C.G.d.L. (Confederazione Generale del Lavoro) che in merito stavano impegnando gli iscritti.

La nascita dell’INA – Altro punto qualificante che precedette la riforma elettorale, approvata nel giugno del 1912; fu l’istituzione del Monopolio di Stato delle Assicurazioni sulla Vita. La proposta di legge presentata alla Camera il 3 giugno 1911 (la riforma elettorale il 9 dello stesso mese). scatenò grandi polemiche e interventi infuocati da parte della stampa; la discussione fu sospesa in concomitanza del periodo feriale e per l’inizio della guerra di Libia; ripresa nel febbraio del 1912 venne approvata il 4 aprile dello stesso anno e diede vita all’INA (Istituto Nazionale Assicurazioni).

 

La crisi del 1913 investì tutte le industrie, il mercato azionario registrò un calo preoccupante, le importazioni superarono le esportazioni di 1.200 milioni, le aziende licenziarono in massa.

Non vi sono dati precisi sull’aumento della disoccupazione ma, in quell’anno emigrarono 872.528 persone, probabilmente disoccupati. .In un solo anno se ne andò il 2,5 % della forza lavoro.

Lo sbocco di questa grave crisi fu “la Grande Guerra”, “mai prima del 1914 si erano visti tanti uomini in armi, mai erano stati usati armamenti tanto micidiali, mai si erano verificate perdite di vite umane così enormi; mai erano state mobilitate tante risorse, mai era stata distrutta una cosi grande quantità di ricchezze”.

 

La Grande Guerra accelerò e fece precipitare alcuni processi già in atto, determinando nello scacchiere mondiale mutamenti di grande importanza.

La guerra combattuta in Europa ne indebolì gravemente la struttura economica, mentre si andava rapidamente rafforzando quella americana e giapponese; l’imperialismo europeo perse importanti mercati in America Latina, in Asia, in Africa.

La Rivoluzione Bolscevica fu l’altro grande evento; nel 1917 l’impero degli Zar venne spazzato via dalla rivoluzione proletaria. La Rivoluzione d’ottobre condizionò tutta la storia d’Europa e del mondo intero, dando inizio ad un’accentuazione della lotta di classe nei paesi capitalistici, stimolò la lotta di emancipazione dei popoli coloniali, ma soprattutto diede inizio alla divisione del mondo in due parti economico-sociali contrapposte: quella socialista rappresentato dall’U.R.S.S. e quella capitalistica dominata dalle potenze imperialiste.

 

Secondo calcoli attendibili, i morti della prima guerra mondiale fra tutti i belligeranti furono circa 10 milioni (più del doppio di tutti i caduti nelle guerre del XIX secolo)[3] e circa 20 milioni i feriti e gli invalidi, dei quali almeno 6 milioni permanenti. Per quanto riguarda l’Italia, secondo i dati dell’Ufficio Statistico del Ministero della Guerra, i morti dell’esercito risultarono 571.000 e gli invalidi 451.645, ai quali bisogna aggiungere 57.000 morti in prigionia e altri 60.000 soldati, considerati prigionieri e mai rientrati in Italia. A questa triste lista vanno aggiunti 500.000 morti per l’epidemia di “Spagnola”.

La Grande Guerra costò quindi all’Italia circa 1.200.000 morti e più di 500.000 invalidi civili. Accanto all’ecatombe umana, va aggiunto il costo economico con un pesante accrescimento della spesa pubblica. In Italia vi fu anche un vasto movimento contro la guerra, la resistenza della popolazione, anche se disorganizzata, fu molto dura. Le persone denunciate furono 870.000, 101.665 condannati per diserzione, 24.500 per indisciplina, 10.000 per mutilazione volontaria, 5.300 per resa o sbandamento. Le condanne all’ergastolo furono 15.000, quelle a morte 4.028. Più che una protesta organizzata dalla propaganda, la resistenza fu una reazione spontanea contro gli orrori della guerra.

Durante il conflitto la condizione economica dei lavoratori e delle loro famiglie andò sempre più peggiorando; nell’agosto del 1917 il malcontento popolare esplose a Torino dove venne a mancare anche il pane, già da mesi in tutta Italia scoppiavano sommosse e tumulti, ma la protesta popolare non riuscì a fermare il macello in atto.

La guerra bruciò in breve tempo la metà delle ricchezze nazionali: dei 100 miliardi di ricchezze che l’Italia aveva, (secondo il calcolo degli economisti), ne vennero spesi 48. Il finanziamento bellico fu realizzato mediante un gigantesco indebitamento dello Stato,[4] che tocco alla fine i 69 ml e 200 milioni, oltre ai debiti contratti con gli Stati Uniti pari a 8 miliardi e 537 milioni di lire oro e con l’Inghilterra  15 miliardi e 400 milioni di lire oro. Il prezzo di cotanto scempio venne caricato soprattutto sulla popolazione e sui lavoratori..

L’elevata disponibilità di forza lavoro e l’economia di guerra permise agli industriali di imporre il blocco dei salari, i profitti per contro assunsero dimensioni stratosferiche: gli utili “ufficiali” dei siderurgici arrivarono a più 16% e quelli dell’industria chimica a più 15%. La grande abbuffata delle forniture belliche, attirò solo nell’ultimo anno di guerra 3.000 milioni di investimenti privati. La guerra fu un affare grosso e lucroso per tutti i gruppi industriali e bancari e la lotta tra di essi non aveva nulla di patriottico ma fu una mera spartizione di bottino e di concentramento di capitale. La coalizione si manifestò subito nel campo siderurgico e meccanico, con il grande rafforzamento dell’ILVA che estese la sua influenza nel settore della meccanica pesante. Il nuovo gruppo dirigente, Max Bondi, Arturo Luzzato e Cesare Fera, estromettendo Attilio Odero, modificò  il carattere dell’azienda fondendola con la Piombino, le Ferriere Italiane, la Ligure Metallurgica e la Siderurgica di Savona. Nascono l’ILVA Altiforni e le Acciaierie d’Italia. Bondi però non riesce nell’intento d’impadronirsi delle acciaierie di Terni dove, a breve, diventa presidente Attilio Odero.

L’Ansaldo sopravanzò ogni altra impresa nella fornitura di materiale bellico; produsse infatti 10.000 bocche da fuoco, più di 6.000 affusti, 11.000 carriaggi, quantità enormi di munizioni, costruì anche 3.000 aerei, più di 1.500 motori di aviazione, 96 navi da guerra, tra la quali una corazzata. Divenne una società Trust verticale poiché estese la sua attività direttamente o con affiliate, dalle miniere di Cogne Val d’Aosta, al campo idroelettrico, alla produzione della ghisa e dell’acciaio.

Durante la guerra la FIAT passò dal 30° al 3° posto nella graduatoria delle Industrie Italiane, aumentò i propri dipendenti da 4.000 a 40.000 e produsse più di 70.000 automezzi, dei quali 63.000 per le forze armate italiane ed alleate; fabbricò più dell’80% dei motori d’aviazione e fu di gran lunga la maggior produttrice di mitragliatrici, estendendo la sua influenza su società minori. La FIAT si dedicò anche alla fabbricazione di aerei in concorrenza con altre società del nuovo settore quali la Caproni, la Macchi, la Breda.

Giovanni Agnelli, il suo capo, agì saggiamente nel campo delle partecipazioni finanziarie usando maggior prudenza dei fratelli Perron e dei nuovi dirigenti dell’ILVA.

Anche l’industria chimica ricevette dalla guerra un grande impulso, tra le varie aziende spicca in particolare la società Montecatini, diretta da Guido Donegani.

Alla fine della guerra questi grandi gruppi industriali iniziarono la “scalata alle banche”, mettendosi in concorrenza fra loro, tanto che il Ministro del Tesoro Nitti, nel giugno dello stesso anno, intervenne per imporre una tregua ai contendenti[5].

 

Lo scempio causato dal catastrofico evento e la conseguente inflazione del dopo guerra, accentuarono il processo di differenziazione sociale; gli ex combattenti vittoriosi trovarono la Nazione nelle condizioni di un paese sconfitto, debiti colossali, diminuzione della produzione agricola, ridimensionamento dell’industria, licenziamenti, disoccupazione. Sia al Sud come al Nord, il reinserimento di oltre 4 milioni di reduci, pose drammaticamente il problema dell’esuberanza della manodopera. Nei primi mesi del 19 i prezzi dei generi di prima necessità subirono aumenti drammatici, la chimerica illusione che la vittoria ottenuta avrebbe spazzato via le difficoltà economiche svanì, il malumore del popolo che si ritrovò sul lastrico sfociò in una possente ondata di scioperi, guidati dalla C.G.d.L in prevalenza socialista, dall’ USI di stampo anarco sindacalista, in forma minore dalla C.I.L. appena costituita e sostenuta dal nascente P.P.I. di don L. Sturzo ed infine dalla U.I.L.[6]. Il numero degli iscritti ai sindacati in continuo aumento, agli inizi del 1920 arrivò a toccare 3.800.000 adesioni. Fra il 1918 e il 1919 i lavoratori strapparono pacificamente  le 8 ore e vari miglioramenti salariali, il reddito reale aumentò del 25%, i braccianti nelle campagne ottennero anche il controllo del collocamento e l’imponibile di manodopera.

 

Nel 1919 faceva capolino anche il Movimento Fascista, infatti nel 1918 con cospicui finanziamenti degli industriali, in prima fila i Perrone, Mussolini era riuscito a tenere in piedi il “Popolo d’Italia” giornale che all’origine si qualificava socialista.. Con i nuovi finanziamenti Mussolini cambiò il sottotitolo da “quotidiano socialista[7] a “quotidiano dei combattenti e dei produttori” un termine tipico dell’ideologia nazionalista, che implicava l’abbandono del concetto della lotta di classe. Nel 1919 interrotti i finanziamenti dei Perrone, Mussolini ottenne l’appoggio finanziario di Max Bondi quindi dell’ILVA; fondò il movimento fascista, formato da gruppi di reduci, ex ufficiali in congedo, ex arditi d’annunziani, deboli minoranze della borghesia che si presentava come un fenomeno ancora ristretto. Al congresso di Firenze del 1919  la nuova formazione politica contava 17.000 iscritti con 56 fasci costituiti in tutto il territorio nazionale, un movimento politicamente quasi inesistente.

Il Movimento fascista diverrà Partito fascista nel 1921.

 

Nel 1920 l’ombra di una nuova crisi capitalistica si addensava minacciosamente; nel mese di maggio ci fu un forte incremento del costo della vita, che salì del 60% circa rispetto al 1919; in base a ciò i Sindacati chiesero un aumento salariale del 40%. Nel frattempo alla Presidenza del Consiglio salì Nitti succedendo a Orlando; con le elezioni del 1919, i liberali democratici al Governo erano sostenuti dal P.P.I. che aveva ottenuto il 20% dei voti, i Socialisti, con il 32% dei voti, restarono all’opposizione·, i fascisti in quella tornata elettorale non ottennero alcun seggio[8].

 

Con l’aumento del costo della vita nel 1920 iniziarono scioperi e tumulti di fronte ai quali  si registrò una resistenza padronale più aspra delle precedenti; molto più frequenti e più violenti divennero gli interventi della forza pubblica, gli scioperi rivendicativi si svolsero durante l’inverno e la primavera di quell’anno. Ma lo scontro di classe più significativo, che segnò l’inizio della rivincita padronale e l’inasprirsi dei contrasti in seno al movimento operaio ed al PSI, avvenne nei mesi di marzo ed aprile a Torino ed ebbe, come oggetto principale, la nuova istituzione operaia “I consigli di fabbrica”, fortemente voluti dagli ordinovisti di Gramsci e Tasca, fondatori del Giornale e del Movimento “Ordine Nuovo” di cui Gramsci divenne ben presto il teorico più coerente[9].

In quel frangente anche Agnelli, Presidente oltre che della FIAT anche dell’AMMA “Associazione Industriale Metallurgici e Meccanici Piemontesi”, che nel 1919 assunse un atteggiamento più conciliante verso la rivendicazione operaia, si convinse della necessità di opporsi energicamente ai Consigli di fabbrica e, in un incontro con il Prefetto di Torino, minacciò la serrata entro pochi giorni per rispondere alla pressione degli operai.[10] La lotta durò dal 29 marzo al 23 aprile ed impegnò dapprima 50.000 operai metalmeccanici FIAT, poi dal 15 aprile 120.000 lavoratori della città  e della provincia. La posta in gioco era molto alta, la resistenza industriale fu durissima; con l’appoggio di Nitti quei giorni Torino fu militarizzata: 50.000 uomini fra guardie regie, carabinieri ed esercito fronteggiarono gli scioperanti, gli industriali non badarono a spese, arruolando  volontari e crumiri in funzione antisciopero generale. Il Fascio di Torino, con un centinaio di iscritti,  appoggiò gli industriali e, all’indomani della fine degli scioperi che segnarono la sconfitta operaia, Mussolini salutò con entusiasmo sul “Popolo d’Italia”  la vittoria degli industriali,.[11] ma le rivendicazioni operaie non cessarono.

L’ottavo congresso FIOM approvò in maggio una piattaforma rivendicativa, preparata dall’allora segretario FIOM Bruno Buozzi che, come abbiamo visto, chiedeva aumenti salariali del 40%. Cadde il governo Nitti e iniziò il quinto ministero di Giolitti; nel frattempo, adottando una tattica provocatoria, il padronato spinse deliberatamente gli operai a occupare le fabbriche con lo scopo di unire in un fronte unico tutti gli strati borghesi del Paese e perciò chiedere l’intervento del Governo. L’occupazione delle fabbriche fu, per i lavoratori fiaccati da dure lotte precedenti e divisi politicamente al loro interno, una scelta obbligata.

I seicentomila operai asserragliati negli stabilimenti, nonostante le loro divisioni e contraddizioni interne, condussero una lotta di straordinaria potenza e capacità organizzativa che cozzò contro il compatto schieramento reazionario.

 

Il 5° Governo Giolitti intensificò l’azione governativa coinvolgendo soprattutto i prefetti di Milano e Torino, Lusignoli e Taddei, il sottosegretario agli interni Corradini ed, in particolare, il Ministro del lavoro Labriola,[12] con lo scopo d’attenuare il contrasto e favorire la soluzione della vertenza. Labriola ottenne dalla FIOM la sospensione delle occupazioni, se la controparte avesse accettato l’apertura delle trattative, ma gli industriali rifiutarono, proclamando la serrata in tutta Italia. Gli operai, per nulla intimoriti, non uscirono dalle fabbriche ed il movimento si estese a macchia d’olio in tutta la Nazione.

La questione della vertenza approdò in Parlamento dove,  in un discorso rimasto famoso, Giolitti spiegò le ragioni del Governo e del suo mancato interventismo a tutela delle tesi industriali, rese infine noto l’accordo con la C.G.d.L. e con i riformisti socialisti, che avevano la maggioranza all’interno dello stesso sindacato, per lo sbocco politico della vertenza, scongiurando così uno scontro tra le forze dello Stato e quelle popolari[13]. Con questo discorso sia pur in sordina il governo Giolitti e Labriola si inserirono nella trattativa, superarono le rispettive intransigenze ed il 19 settembre a Roma, con la mediazione del Governo,[14] venne siglato l’accordo fra lavoratori e industriali che prevedeva aumenti salariali ed il riconoscimento del controllo, da parte operaia, delle industrie.

Infine lo stesso Giolitti firma un decreto che istituisce le commissioni paritetiche formate da  6 rappresentanti sindacali e 6 rappresentanti dell’azienda.

 

Ma lo scontro proseguì; gli industriali ringalluzziti dalle divisioni operaie e delle loro istituzioni, che sfociarono poi nella scissione di Livorno nel gennaio 1921 dove furono presentate per la prima volta le tesi sulla natura e sulla funzione del Partito Comunista d’Italia, attuarono una svolta decisiva per il totale recupero del controllo della produttività e del costo del lavoro. La borghesia italiana rinunciò a qualsiasi idea riformista e passò ad un programma di liquidazione violenta e globale del movimento operaio: il Partito Fascista, già ampiamente finanziato, ne fu lo strumento. Iniziarono così negli ultimi mesi del 1920 e nei primi mesi del 1921, per poi proseguire negli anni, violenze ed intimidazioni di ogni tipo; l’assassinio, la vendetta, la sopraffazione e l’intimidazione, divennero strumenti di lotta politica tollerati dalle autorità e favorite del potere capitalistico. Nonostante tutto, alle elezioni politiche anticipate, indette da Giolitti. nel maggio del 1921, le forze di reazione furono sconfitte, ma quelle elezioni segnarono anche il declino di Giolitti, del Riformismo di allora e l’entrata in Parlamento di uno sparuto gruppo di fascisti eletti nel cosiddetto “blocco sociale”: era il preludio della Marcia su Roma, avvenuta poi nell’ottobre del 1922. L’escalation della violenza comportò nei primi mesi del 1921 la distruzione di 17 tipografie e sedi di giornale, 59 case del popolo, 119 C.D.L. e 107 cooperative fra cui , nella nostra zona, quella di Fagnano Olona ed il Circolo G. Verdi di Olgiate Olona;  fatti, come vedremo, cruenti ma che nonostante tutto non intimidirono i nostri predecessori, concittadini e nonni.

Nelle elezioni del 15 maggio, nonostante i gravi fatti funesti, i socialisti a Olgiate ottennero 447 voti, 89 i comunisti, 120 i popolari e, solo 39 il blocco formato anche da fascisti. In questo grave clima di intimidazioni, violenze e assassini maturò la marcia su Roma.

I fascisti, giunti al potere passarono subito alla realizzazione dei loro programmi, imponendosi con leggi liberticide. Gli anni 1924-1926 segnano la legalizzazione della fascistizzazione dell’Italia  attraverso provvedimenti e decreti legge che esautoravano il Parlamentoe che imponevano, come legge dello Stato,  le leggi dei “manganellatori.”[15]

Nel 1926 il Consiglio dei Ministri  decreta: la soppressione di tutti i giornali d’opposizione, lo scioglimento di tutti i Partiti e delle altre organizzazioni contrarie al regime, istituisce il confino, il carcere per reati politici e la pena di morte.

Olgiate, la Valle Olona ed i grossi agglomerati come Legnano, Busto e Gallarate, con gli insediamenti industriali cotonieri, metalmeccanici e chimici furono sempre nell’occhio del ciclone, con scioperi, occupazioni, attività politiche che  ancora nel 1921 resistevano fieramente al sopruso ed  alla violenza.

Anche dopo l’ascesa Fascismo al potere, uomini e donne si opposero fieramente con ogni mezzo al regime, dando vita a biblioteche popolari, ad associazioni culturali, a compagnie  teatrali, a gruppi di difesa, alla solidarietà spiccia che il giogo fascista osteggiava e sopprimeva.

 

[1] G. Candeloro La Storia d’Italia Libro 7° cap. 4°

1) G. Candeloro – La Storia d’Italia Volume 8° pag. 222.

[5]  Su rapporti fra i Nitti e i Perrone si veda Monticone, Nitti e la Grande Guerra. Da pag. 199 a pag. 253.

[6] Organizzazione sindacale interventista nata durante la guerra da una scissione del’USI.

[7] G. Candeloro – Storia d’Italia Volume 8° pag. 275.

[8] G. Candeloro –“ La Storia d’Italia “  Volume 8° pag. 301.

[9] A. Gramsci – L’Ordine Nuovo 1919-1920  –  Einaudi Torino 1954 da pag. 27 a pag 48.

[10] G. Candeloro – “Storia dell’Italia moderna”, vol. VIII , pg. 308

[11] G. Candeloro, op. citata , vol. VIII, pg. 309

[12] Vedi Telegrammi Ministeriali pubblicati da C. Vallauri “L’atteggiamento del governo Giolitti di fronte all’occupazione delle fabbriche.” Milano Giuffrè 1965 – pag. 35., citato da G. Candeloro, op. citata, vol. VIII pg. 327.

[13] Giolitti Discorsi parlamentari Cit. dal Vol. IV pag. 1787.

[14] G. Candeloro  – La Storia d’Italia Volume 8° pag. 332.

[15] W. Tobagi 1973 “ Gli anni del manganello”: premessa le leggi del Regime.

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